venerdì 3 dicembre 2010

Se la scienza ti ruba l'anima. Intervista a Pietro Barcellona


Pietro Barcellona, già membro del Consiglio superiore della magistratura e deputato alla Camera, è docente di Filosofia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania. È autore di molti libri, nei quali spesso si confronta con i temi trattati da Raimon Panikkar.

Panikkar ha scritto che il discorso della filosofia non ‘serve’ a niente, perché è libero, non è ‘servo’ di nessuno. Sembra una riflessione vicina a quella che Lei porta avanti nel Suo ultimo libro, Elogio del discorso inutile (ed. Dedalo, 2010).
C’è indubbiamente una grossa affinità, ma più in generale il discorso sulla ‘parola inutile’ serve a sottolineare la differenza profonda che c’è tra il discorso scientifico - che non può che essere utilitaristico, in quanto deve misurare l’efficacia dell’azione che si svolge rispetto a un obiettivo dal risultato che si produce, risultato che dev’essere sempre contabilizzabile, in qualche modo, e descrivibile in termini di
assoluta obiettività - e il discorso filosofico - ma anche quello psicanalitico e a mio avviso anche quello religioso - discorsi che producono semplicemente trasformazioni della maniera di guardare il mondo, dello sguardo, e non invece un risultato pratico operativamente misurabile. Perciò sono discorsi gratuiti, in un certo senso, perché non hanno alla base una logica strumentale, non sono fatti usando l’interlocutore per ottenerne qualcosa in cambio, ma sono discorsi ‘affettivi’, si potrebbe dire ‘amorosi’: tendono a realizzare quella che Panikkar in altri testi chiama ‘comunione’, una forma dello stare insieme in cui non c’è alcuna valutazione di convenienza, bensì un legame affettivo.

Per Panikkar «la parola crea la cultura»; com’è la parola di questa nostra cultura tecnologica?
Credo su questo punto di essere un po’ più netto di Panikkar, che pure a suo modo è molto critico nei confronti della tecnologia. La scienza cerca di narrare tutto il mondo tramite le sue parole-chiave, che sono in gran parte parole descrittive che non hanno nessuna reale valenza simbolica; da questo punto di vista penso che noi oggi siamo di fronte a un vero e proprio prosciugamento della dimensione spirituale, ancor di più della dimensione mistica, intesa come amore per la vita, come esperienza della vita di cui parla Panikkar. Questo io lo vedo come un pericolo, perché non penso che ci siano garanzie assolute per mantenere questo assetto odierno, attualmente ancora vivo, in cui c’è una interiorità che si sviluppa all’interno di un corpo vivente - non in autonomia dalla vitalità, dai sensi, da tutte le caratteristiche della vita - ma con un elemento di irriducibilità al puro pensiero razionale, elemento che invece la cultura scientifica tende a cancellare (così come, al contempo, tende ad assumere una progressione lineare nella storia dell’evoluzione umana, a mio avviso incompatibile con la visione cosmoteandrica del filosofo catalano). A mio avviso - qui, in particolare, mi distacco da Panikkar - nella narrazione contemporanea non è possibile ritrovare la presenza del sacro; al contrario, ritengo che noi assistiamo a una desacralizzazione totale del mondo. Perché, insomma, non vi è alternativa: quando l’uomo viene assorbito dalla macchina, la macchina diventa una parte integrante del suo corpo e del suo funzionamento mentale e l’elemento enigmatico, misterioso, sacro tipico della vita, viene perduto. in ciò credo dunque che la mia valutazione sia più negativa. Come Panikkar dice spesso, le tecniche non sono neutrali. La cultura che si va diffondendo è permeata dalla terminologia figlia delle nuove tecniche informatiche, del nuovo modo di guardare ai processi mentali... nel linguaggio comune è entrato, al posto di ‘vita e ‘tempo’, il concetto di ‘flusso’, che non conosce discontinuità, rottura, cambiamento, e nemmeno rivoluzione. Per esempio, tutti linguaggi utilizzati per descrivere le funzioni cerebrali, i neuroni, i neuroni-specchio, ecc., sono linguaggi che tendono ad esautorare i significati simbolici, mentre risolvono tutto in una descrizione che aspira ad essere totale. Credo che questo comporti un enorme rischio di disumanizzazione, di perdita della parola, che si traduce in quello che ho chiamato in un mio libro precedente ‘furto dell’anima’. Quell’‘anima mundi’ di cui parla P., non solo non esiste più nella natura, ma non esiste più nelle persone. Su questo punto marco una ulteriore differenza con il filosofo: poiché è vero che tutto ciò che è vivente appartiene allo stesso ordine armonioso, integrato, ‘cosmoteandrico’, ma io credo che la persona possieda una irrinunciabile differenza qualitativa rispetto al resto del vivente. Perciò adopero il concetto di ‘persona’ in senso forte: per sottolineare che la natività umana segna un salto rispetto alla natività animale.

Contro un certo positivismo per il quale le parole non sono altro che segni, Panikkar ha affermato che «lingua e stile di vita sono inseparabili». Che vuol dire?
Vuol dire una cosa molto importante: che le parole non sono solo un mezzo con il quale ci mettiamo in contatto, ma molto di più; ogni parola dice un universo, ogni lingua è davvero espressiva - come dice Panikkar - quando si sviluppa sulla condivisione del mito fondativo che organizza il rapporto degli uomini con il mondo. Il linguaggio dunque non può essere ridotto a un mero strumento tecnico.

La scienza si propone come unica visione razionale e oggettiva delle cose. Davvero l’uomo, il mondo, il reale, corrispondono alla descrizione (matematica e concettuale) che la scienza ne dà? Davvero la luna (per millenni richiamo dei poeti) non è altro che un ‘corpo celeste’?
Come ha sottolineato più volte Panikkar, siamo anche liberi, e siamo liberi di mettere in atto le potenze distruttive assieme a quelle creative, secondo l’abito di ciascuno di noi. Nell’atto di ridurre la luna a un corpo celeste c’è un tentativo di annichilire la poesia; se si pensa alla poesia di Leopardi, si constata che non abbiamo guadagnato niente rispetto al pastore errante dell’Asia nel mettere i piedi sulla superficie lunare. Mentre quello che ci mostrava Leopardi era infinitamente più grande e significativo per la nostra vita.

Per Panikkar il legame fra parole e stile di vita è così stretto che si può affermare: «la vittoria di una parola su di un’altra non è meno importante di una vittoria politica». Cosa ne pensa?
Sono profondamente d’accordo. Oggi questo si vede molto chiaramente: poiché le parole fanno ‘essere’ un mondo, spesso si crea una alienazione sociale tramite l’alienazione del linguaggio.

Quindi la manipolazione della vita degli individui passa per la manipolazione del linguaggio. Al riguardo Achille Rossi ha scritto che «restituire alle parole il loro più proprio valore simbolico è un compito culturale di prim’ordine». Come si fa a portare avanti questo compito?
Le parole si creano sempre insieme agli altri. Bisogna restituire a questa relazionalità il carattere della condivisione di esperienze: a volte non si tratta nemmeno di restituire alle parole un certo significato (che magari è tramontato), bensì di inventarne uno nuovo, che esprima il collegamento all’esperienza effettiva. Mi trovo spesso a dire, citando Castoriadis - che a mio avviso è un autore da studiare accanto a Panikkar - l’esperienza sociale è un’esperienza vera se crea significati nuovi. Non è dunque un compito per ‘pensatori solitari’, ma qualcosa che compete e spetta - al di là di ogni specialismo e di ogni accademia - a tutti noi.

(«l'Altrapagina», novembre 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano