L’amico Dario Salvelli, blogger casertano (www.dariosalvelli.com) e collaboratore di «Wired.it», ha scritto in un suo post del 24 ottobre 2010 - commentando la notizia della probabile chiusura di 90 testate giornalistiche italiane, con la conseguente perdita di 4.000 posti di lavoro:
credo che prima di pensare a come ottenere sussidi e farsi pompare introiti, un giornale debba riuscire ad autosostenersi e coprire almeno il 90% dei suoi costi. Altrimenti qualsiasi discorso non sta in piedi.Non sono d’accordo. E non perché mi piaccia bearmi nella (triste) idea che quelli che quelli che scrivono siano più di quelli che leggono, né perché
adori assistere ogni tanto agli scandali di quei giornali - più o meno di partito - aperti e tenuti in vita con la maschera d’ossigeno solo per succhiare finanziamenti e scroccare trasferte e ingressi allo stadio.
Ci sono cose che rendono - in termini economici - meno di quanto costino, ma di cui la democrazia non può fare a meno. Parlamenti, tribunali, giornali
Il punto è che ci sono cose che - economicamente parlando - rendono meno di quanto costino. È un dato di fatto. Eppure lotteremmo fino alla morte per evitare di farcele portar via. I nostri figli, ad esempio. Quanto di più antieconomico esista. Ma chi di noi se la sentirebbe di dire al proprio pargolo: “figlio mio, da oggi in poi, se non ti ripaghi almeno le spese, ti taglio i viveri”?
Ma, più in particolare, l’inserimento di certe cose nella logica del mercato sfocia spesso in una degenerazione. Così, ad esempio - parlando di giornali - l’esigenza di accrescere il numero dei lettori produce l’aumento della mediocrità dei contenuti; così come l’esigenza di incrementare la pubblicità rende preferibili titoli e argomenti accattivanti e di facile fruizione, a scapito di quelli di approfondimento e di riflessione.
Un esempio (che devo a Fabio Chiusi, autore del blog “Il Nichilista”). Il 27 ottobre 2010 è morto il polpo Paul, celebre per le sue predizioni dei risultati degli scorsi mondiali. Lo stesso giorno si è avuta la notizia della morte in carcere di Simone La Penna, 32 anni, spentosi lentamente a Regina Coeli dopo aver perso 30 chili in pochi mesi, con la complicità di medici, infermieri e guardie negligenti. Ebbene, ecco come le due notizie sono state trattate dalla stampa italiana: «Repubblica» parla del polpo ma non di La Penna - idem «Il Giornale»; «Libero» dedica al polpo una pagina intera, al giovane solo un trafiletto. Roba da voltastomaco. Si potrebbero fare altri esempi.
Certo, non tutti i quotidiani si sono comportati così (molto migliori sono stati «l’Unità», «Il Fatto quotidiano», «Il Riformista», «La Stampa»). Eppure: come è possibile che anche solo 3 tra i più grandi giornali italiani siano scesi così in basso? Se non vogliamo pensare a quelle redazioni come a covi di cinici bastardi (o a delle inverosimili sviste), non ci resta che dare la colpa a dei calcoli di opportunità economica. Vero movente, a mio avviso, di un imbarbarimento che sempre più si profila come trend.
Ciò che risulta anche dall’ultimo rapporto annuale sulla libertà di stampa, a cura dell’organizzazione francese “Reporter senza frontiere”, nel quale l’Italia viene classificata al 49° (quarantanovesimo) posto, dopo Paesi come Capo Verde, Mali e Bosnia (e quartultimi in Europa: peggio di noi solo Romania, Bulgaria e Grecia). Cerchiamo di domandarci come sia possibile, evitando se possibile di dare ogni colpa al solito Berlusconi. Stavolta non è colpa sua, ma di una brutale evidenza: la morte di un giovane carcerato si vende poco. Decidiamo fin da ora da che parte stare: se vogliamo giornali “che si vendano”, cominciamo fin da subito ad abituarci all’idea. Ragazzi come Simone continueranno a morire. Ma noi non lo sapremo più.
(«Il Caffè», 3 dicembre 2010)