CASERTA, febbraio 2010. N.N., tassista cinese, lega tutte le mattine suo figlio Laolu di 2 anni a un palo dell'illuminazione.
Siamo poveri e io sono l'unico a lavorare; mia moglie va in giro per la città a rovistare tra i rifiuti e, zoppa com'è, non può tenerselo. Io non posso portarlo con me in taxi e nemmeno posso lasciarlo sciolto e libero: già il mese scorso mi hanno portato via mia figlia Ling, di 4 anni; non posso rischiare di perdere anche lui.Risponde cosi N.N. a chi gli chiede del figlio che anche stamattina ha incatenato al palo.
Ricapitoliamo: a Caserta un uomo, cinese, tassista, lega il figlio a un palo posto davanti a un centro commerciale per evitare che glielo rubino; gli hanno già sottratto la figlia ("non ho neanche una foto di mia figlia per fare un poster per ritrovarla"), e lui non ha altro modo di prendersi cura del bambino, perché è troppo povero per fare diversamente.
Sconvolgente, vero? Turba che a Caserta possa accadere qualcosa di simile. Si stenta a crederci, sembra addirittura impossibile.
In questa forma di economia globale, più cresce la ricchezza complessiva più sembra difficile far fronte alla povertà dei singoli
In effetti non accade a Caserta, ma in Cina, nella città di Liangxiang. E l'uomo non è propriamente un tassista ma un guidatore di risciò. Il resto è tutto uguale. Ma ora sembra meno sconvolgente, il quadro d'insieme sembra più coerente e quasi normale. Perché? Perché si sa che in Cina certe cose possono accadere? O perche la Cina è lontana e le sue cose - nella fattispecie, i suoi bambini - ci riguardano solo fino a un certo punto? Oppure, ciò di cui ho più paura, ci siamo assuefatti all'idea di una povertà che va tollerata anche quando provoca le conseguenze piu gravi e turpi, ci siamo rassegnati all'idea di una povertà di alcuni (molti) come prezzo necessario da pagare per la ricchezza di altri (pochi)?
Capiamo bene: l'uomo incatena a un palo il figlio di due anni perché è povero. Non perché è crudele o incosciente. Il figlio rischia di morire, certo: se avrà un malore improvviso potrà trovarsi da solo, nell'impossibilità di muoversi e di spostarsi, perfino i soccorritori potrebbero avere problemi a liberarlo dalla catena. Ma lui sembra non avere altra scelta.
La Cina (ma anche l'India) è un caso lampante di crescita del PIL complessivo che non si accompagna a una crescita del benessere dei singoli (anzi). Ma allora è sempre colpa dell'economia? Be', se un lavoratore con due figli minori e moglie disabile non può permettersi l'asilo nido per il suo bambino, allora qualche problemino di redistribuzione della ricchezza dev'esserci. O no?
Nella nostra epoca globale non dovremmo pretendere il cambiamento della mentalità o dello stile di vita o delle scelte economiche da parte dei cinesi; piuttosto dovremmo pretendere da noi stessi lo stesso brivido di raccapriccio e la stessa pena per l'infante, che si tratti di un piccolo cinese lontano o di un italiano a noi vicino. E non perché vogliamo aspirare a un'etica condivisa sul piano dei diritti umani in sede ONU; tanto meno perché ambiamo ad esportare "democrazia" e "civiltà". Ma perché vogliamo che la globalizzazione sia l'occasione per condividere con gli altri, a maggior ragione i più diversi e lontani, le cose che per noi sono importanti; per non dover mai più vivere in un mondo dove accadono brutture come questa. Per aver qualcosa da dire quando nostro figlio, tra qualche anno ci dirà: e tu, papà, cosa avresti fatto al posto di quell'uomo?
(«Il Caffè», 7 maggio 2010)