Gloria Germani, filosofa per passione, dopo gli studi di filosofia moderna e antica si è dedicata alle filosofie e religioni dell’India e dell’Estremo Oriente. Collabora con il Centro studi Caterina Conio, dedicandosi in particolare alla filosofia comparata e dialogo interreligioso. Ha pubblicato i volumi Teresa di Calcutta: una mistica tra Oriente e Occidente (Paoline, 2003, con la prefazione di Tiziano Terzani) e Tiziano Terzani: la rivoluzione dentro di noi (Longanesi, 2008). Abbiamo preso spunto dal recentissimo Tutto è uno (Ellam onru), di cui è curatrice, per rivolgerle alcune domande.
Il testo da Lei tradotto insiste fin dal titolo sull’unità di tutte le cose. Cosa vuol dire esattamente?
Questo piccolo testo anonimo mi ha affascinato innanzitutto per la sua semplicità e chiarezza. Si intitola Tutto è Uno e dal primo verso dichiara: “Tutto quello che esiste, incluso il mondo che tu vedi, incluso te stesso, testimone del mondo, tutto è Uno”. Questa frase esprime il nucleo centrale del non-dualismo – (Advaita in sanscrito) cioè quella visione del mondo che dà forma alla cultura indiana da millenni. Ho evitato di usare la parola filosofia perché questo termine, come pure quello di religione, non esiste nelle lingue indiane. Infatti questa visione del mondo
è molto diversa da quello che troviamo in Occidente ed anche il riferirsi al dualismo di Platone tra mondo delle idee e mondo sensibile sarebbe fuorviante. Gli antichi saggi o rishi (“coloro che vedono”) capirono fin dai tempi delle Upanishad che tutta la vita è Una. Cosa significa? Innanzitutto che la mia vita e la vita di un albero sono la stessa vita. Ma significa anche che quegli esseri che consideriamo solitamente insensibili come gli alberi, o inerti come i minerali, fanno ugualmente parte di quell’Uno, proprio come gli esseri sensibili. Inoltre significa che ciò che siamo soliti considerare come separato – io, tu, egli, ella – sono in realtà Uno. Infatti, alla base di questa visione del mondo, c’è l’intuizione – veramente folgorante – che non c’è separazione tra l’Io che è testimone del mondo e il mondo che l’io vede. Questa è la prima di tutte le dualità. È ciò che l’Occidente non ha mai visto (con l’unica eccezione della mistica medievale, in particolare, di Meister Eckhart che però fu condannato dalla Chiesa). In altre parole, alla base di ogni conoscere e di ogni sapere c’è sempre un IO-EGO che è coinvolto e produce questa conoscenza. L’io non è mai qualcosa di neutrale, di perfettamente cristallino che riflette in maniera imparziale la realtà. L’obiettivo di tutta la civiltà indiana, dall’arte alla musica, alla mitologia, è infatti sempre stato quello di tacitare questo EGO. Perché solo quando l’Io-Ego che produce pensieri e conoscenze si arresta, è possibile realizzare l’Unità dell’Essere e sperimentare così la perfetta pace insieme alla perfetta beatitudine. L’altro aspetto importante del non-dualismo è che conduce immediatamente a comportarsi in maniera etica. Anche qui il nostro testo anonimo è chiarissimo: “Il benessere che deriva dalla conoscenza che Tutto è Uno non può essere ottenuto tramite una conoscenza frammentaria che separa le cose e gli esseri. Tutto è Uno”. “Una persona che guarda a se stessa alla stessa maniera in cui guarda gli altri, e gli altri come guarda se stessa, non potrà che essere onesta e giusta. Quando mai il male potrà attaccarsi a colui che è consapevole che è uno con gli altri? Dimmi: esiste una via migliore verso il Bene se non la conoscenza dell’Unità?”
Oggi tendiamo a pensare, in maniera dualistica (à la Descartes) che il pensiero e l’azione siano scissi, separati; si può essere un pervertito di notte ma un bravo insegnante di giorno, un delinquente nel privato ma un bravo politico nel pubblico. Cosa ne pensa?
La ringrazio per questa domanda provocatoria che va direttamente al centro del tema che stiamo trattando. Se partiamo dall’affermazione che tutto è Uno, non ci può essere nessuna separazione tra pensiero e materia, come invece siamo portati a pensare da almeno 300 anni. Pensiero e materia sono indissolubilmente legati e interconnessi. Bisogna sottolineare infatti che il non-dualismo non è una teoria, non è una mera scoperta intellettuale, ma una visione del mondo che proviene dalla vita e dà forma alla vita. Gandhi, con altre parole, diceva che i mezzi sono i fini. I mezzi che usiamo per raggiungere una cosa, la condizionano sempre, sono la cosa stessa. Quindi non ci può essere nessuna distanza tra pensiero e azione, tra intenzione e azione. Cartesio ha introdotto nel modo moderno di pensare quello che oggi chiamiamo appunto “dualismo cartesiano”, cioè la separazione o meglio il baratro tra il pensiero – indipendente, distaccato, neutrale – e il mondo esterno che il pensiero indaga e studia. Questo baratro è a mio avviso il vero responsabile del disastro etico attuale. Non esiste una separazione tra pensiero e mondo esterno; come non esiste una separazione tra ciò che l’individuo pensa e sente nel suo intimo e ciò che l’individuo compie e realizza. Anche quello di individuo è infatti un concetto recente, nato non prima dell’800, e credo si possa affermare che è il corrispettivo sul piano sociale del pensiero e dell’ego a cui Cartesio ha dato tanta importanza (il famoso Cogito, ergo sum, penso, dunque Io sono). Essere un delinquente nel privato e un bravo politico, ma anche – per essere più attuali - un donnaiolo nel privato e un bravo politico è impossibile. Questo è l’antitesi della rettitudine che è alla base della politica che dovrebbe sempre avere come scopo il bene comune. È l’antitesi della saggezza e, purtroppo, oggi ne vediamo tutte le conseguenze sulla società “civile” dove questi comportamenti sono diventati la norma.
L’epistemologia cartesiana della specializzazione progressiva dei saperi sembra messa in crisi oggi – come Lei spiega nell’introduzione al volume – dalle stesse teorie fisiche del bootstrap, del caos, della complessità. Siamo a un punto di convergenza tra la mistica indiana e la più “dura” delle scienze occidentali?
Esattamente. Questo mi sembra un fatto accertato almeno dal 1975 quando l’amico Fritjof Capra pubblicò Il Tao della Fisica. A partire dai suoi studi, il fisico austriaco ha messo in luce che i risultati della fisica subatomica, con la teoria della relatività o la meccanica quantistica, negano che si possa parlare di materia come un qualcosa che sta là fuori, separata dalla mente, che lo spazio sia un contenitore vuoto, che il tempo scorra uniformemente ed indipendentemente dai materiali in esso contenuti, che esistano dei nessi univoci di causa-effetto. L’immagine della realtà ultima che deriva dalla fisica contemporanea, come intuì Capra, è più simile alla danza cosmica dell’energia simboleggiata da Shiva, Signore della danza. Le rivoluzionarie scoperte della fisica rendono superate la distinzioni tra corpi solidi e energia, tra materia e psiche e si avvicinano sorprendentemente alla maniera in cui indù, buddisti, taoisti hanno sempre visto la realtà come un tutto collegato ed interconnesso. Parlare di “mistica indiana o orientale” mi sembra anzi riduttivo; si tratta di una antica maniera di vedere il mondo che ha ricevuto straordinarie conferme dalla fisica contemporanea. E, come lei accennava, se esiste una scienza per eccellenza, quella è proprio la fisica: i greci iniziarono le loro riflessioni a partire dalla ricerca sulla physis; tutto il pensiero moderno è nato dalle scoperte che Galileo e Newton avevano fatto nel campo della fisica. Capra ha anche dimostrato ne Il Punto di svolta, che tutte le scienze moderne con cui interpretiamo il mondo, dalla medicina alla psicologia, alla elettrodinamica, per esempio, si basano sul paradigma dualistico e meccanicistico inaugurato da Newton e Cartesio. E se questo paradigma dualistico fosse dunque sbagliato?
L’anonimo autore di questo denso e suggestivo testo predica l’amore per i nemici e il “credere per capire” (che ci riporta alla mente Agostino). In cosa siamo qui sulla stessa linea del cristianesimo? Cosa c’è invece di affatto incompatibile tra i due?
Come ripeteva spesso Gandhi, tutte le religioni, prese nei loro aspetti più profondi, dicono le stesse cose. Ama i tuoi nemici è senz’altro un precetto fondamentale del buddismo, del giainismo, dell’induismo, dove il concetto di non violenza è centrale. Non credo che vi sia niente di assolutamente incompatibile anche se è innegabile che la tradizione giudaico-cristiana rimane più legata ad un concetto di persona, a un concetto di Io separato e autonomo. Di base essa conserva un antropomorfismo che la rende più incline ad assoggettare il mondo animale, il mondo vegetale e minerale, più generalmente la terra; in altri termini è molto meno ecologica od olistica delle tradizioni religiose orientali.
Il saggio insiste sulla centralità dell’esperienza personale, nonché sulla solidità delle innumerevoli esperienze precedenti. Quale grado di intersoggettività (solitamente riservata alle scienze) può essere attribuito alla mistica?
Il punto è che questo tipo di conoscenza – tutto è uno, tutto è connesso ed intercorrelato – non può essere raggiunta per mezzo del linguaggio. E qua si colloca una differenza sostanziale, forse la più sostanziale, con il pensiero dell’Occidente. Le dottrine orientali concordano sul fatto che la realtà ultima può essere raggiunta ma non sul piano linguistico e razionale discorsivo. Questa è la ragione per cui queste civiltà – indiana, cinese, tibetana – danno tanta importanza ad altri tipi di esperienza come la meditazione, lo yoga, i koan dello zen. Si tratta di esperienze che ciascuno deve fare personalmente ma queste vie ci sono, sono state praticate da millenni da un lignaggio ininterrotto di saggi e, come dice il nostro testo, possono essere apprese e messe in pratica. Alla fine di queste strade non c’è il premio Nobel, ma qualcosa di molto più grande perché “in questa maniera Dio può essere realizzato”. Non c’è più nemmeno Dio (che è l’ultima delle illusioni, secondo Sankara) ma è l’uomo stesso che diventa divino.
Lei ha conosciuto da vicino Tiziano Terzani. Terzani conosceva questo testo? Cosa ne pensava?
Non mi risulta che Terzani conoscesse questo specifico testo. In ogni caso egli aveva compreso – ed in maniera molto profonda – la visione della non-dualità che pervade tutta la civiltà indiana. Leggendo i suoi libri, sono rimasta molte volta colpita dalla pacata acutezza della sua comprensione, molto maggiore e molto più chiara di quella di tanti orientalisti. E questo perché Terzani ha vagliato queste tradizioni con la sua esperienza personale, con la sua stessa vita, e non dall’angolo tranquillo di una scrivania universitaria. Di fatto nella vita di Terzani c’è un filo che, quasi con la forza di un destino, lo ha condotto in Asia e da qui in India. In un passo del suo libro testamento – La fine è il mio inizio – dice: “solo l’India non mi ha deluso”. Nella sua vita di giornalista si era sempre interessato a cose concrete, politiche, storiche, sociali, e il contatto vero e proprio con il pensiero dell’India avvenne in California nel 1999 quando uno Swami – dopo aver studiato la sua carta del cielo – giudicò che era meritevole di diventare studente. Terzani passò quindi 3 mesi insieme a Swami Dayananda nel sud dell’India come un semplice discepolo, alzandosi all’alba, mangiando una dieta vegetariana semplicissima, salmodiando mantra, per apprendere il nucleo del pensiero indiano: l’Advaita che lo Swami concentrava nella semplice domanda “Chi sono Io?” Terzani aveva la freschezza e la curiosità di un bambino nell’imparare, tanto che aveva già intuito tutto fin dal primo momento in cui aveva messo piede nell’ashram e si presentò non come il giornalista internazionale di successo, ma come Anam, “colui che non ha nome”. Da qui la scelta di passare i suoi ultimi 4 anni sulle sacre montagne dell’Himalaya, in solitaria compagnia di un bellissimo personaggio che chiamava il Vecchio, per continuare questa indagine nel profondo di sé che è la meta del non-dualismo. Come scrivo nell’introduzione, di fronte all’11 settembre e alle scelte epocali di violenza o di nonviolenza che ne sarebbero seguite, Terzani invocò proprio il pensiero che Tutto è uno e spronò l’Occidente a ripensare non solo i rapporti tra stati ma anche i rapporti con la natura, con gli altri e con se stessi. “Fermiamoci – scriveva –. Immaginiamoci il nostro momento di ora dalla prospettiva dei nostri pronipoti. Guardiamo all’oggi dal punto di vista del domani per non doverci rammaricare di aver perso una buona occasione”. L’occasione è di capire una volta per tutte che il mondo è uno, che ogni parte ha il suo senso, che è possibile rimpiazzare la logica della competitività con l’etica della coesistenza. “Si tratta di capire che la vita e la morte sono due aspetti della stessa cosa” – scriveva Terzani e aggiungeva: “arrivare a questo è forse la sola meta del viaggio che tutti intraprendiamo nascendo: un viaggio di cui io stesso non so granché, tranne che la sua direzione – ora ne sono convinto – è dal fuori verso il dentro e dal piccolo sempre più verso il grande”.
(«il Recensore.com», 1 febbraio 2010)