martedì 2 febbraio 2010

P. Barcellona, L'oracolo di Delfi e l'isola delle capre, ed. Marietti, 2009


A volte, volendo fare un complimento a un libro di saggistica, si dice che “è scritto come un romanzo”, intendendo con ciò che ha uno stile fluido, che cattura l’attenzione del lettore, magari che è perfino avvincente.
Ebbene, nel suo ultimo libro, L’oracolo di Delfi e l’isola delle capre (ed. Marietti, 2009), Pietro Barcellona riesce a fare ancora di più, consegnandoci uno scritto di argomento filosofico e psicanalitico che è inteso e strutturato proprio come un romanzo: il racconto meditato del Seminario del Ruolo terapeutico tenuto dall’autore nell’isola greca di Spetses nel maggio 2008.
Di quella settimana di incontri Barcellona annota tutto: dai contenuti teorici al profumo dei limoni, dalle occhiate silenti ma significative dei convenuti al gusto degli arrosti, dalle obiezioni recise agli schizzi rumorosi dei giovani che si tuffano in mare. Così, come c’era da aspettarsi
da una serie di incontri tenuti all’aperto, sotto un ulivo nell’“isola delle capre”, leggiamo un resoconto di quello che si è detto in quei giorni, ma anche delle emozioni che li hanno animati e in parte del “non detto” – aspirazioni, frustrazioni, recriminazioni – ogn’ora presente nei singoli come nei gruppi. Cui Barcellona aggiunge ampi commenti di carattere personale e ancor più intimo, relativi ad esempio al suo linfoma – recentemente accertato e che, al di là di ogni retorica, egli vive come un’esperienza di avvicinamento agli altri e di approfondimento della propria condizione umana – e alla sua lunga militanza, esaltante prima e deprimente poi, nella dirigenza del Partito Comunista Italiano.
Il discorso – nutrito dalla lezione in primo luogo di Castoradis, ma anche di Freud, Marcuse, Heidegger – va dalla critica del nostro “mondo dell’immagine” a quella dello scientismo, dall’idea di libertà all’importanza per l’uomo del limite e del mistero. Critica che in definitiva il filosofo catanese esercita nei confronti di quello che è forse il più grande nemico dell’uomo contemporaneo (oltre che la sua più grande tentazione): la tracotanza del comprendere tutto tramite la straordinaria potenza del proprio intelletto, che si ritorce nella riduzione della maestosità pluriforme delle cose a un piatto oggetto del pensiero.
Simbolo dell’universo che eccede ogni reductio ad unum – e dell’uomo che ad essa rifiuta di abbandonarsi, mostrando con ciò ancora il coraggio e la capacità di meravigliarsi di fronte all’infinito – è la capra bianca tipica dell’isola di Spetses: creatura che
non è gregaria, che a differenza della pecora non si lascia tosare mansueta, è altera come una Dea e non è addomesticabile.
Simbolo non di resa per l’uomo, bensì di reale possibilità di essere uomo in pienezza: perché è solo conoscendo i propri limiti invalicabili che l’essere umano può esprimere alla massima potenza tutto ciò che entro tali limiti è contenuto. “Se vuole davvero essere uomo, l’uomo deve smetterla di provare ad essere Dio” scrisse Camus in una pagina che fece infuriare Sartre. Di fronte alla “non addomesticabilità” dell’Essere, è atto di stoltezza pretendere di costruire gabbie intellettuali e tecniche sempre più grosse e robuste; per contro, ci ricorda l’autore, il saggio è colui che acquista la propria libertà tramite la rinuncia all’ossessione del controllo. Riuscendo a diventare né bestia né angelo: bensì, infine e finalmente, uomo.

(«l'Altrapagina», gennaio 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano