giovedì 3 dicembre 2009

Z. Bauman, La società dell'incertezza, ed. il Mulino, 1999

Che il mondo in cui viviamo sia attanagliato dalla mancanza di sicurezza non è più per noi qualcosa da apprendere dai libri o nelle aule universitarie, ma un’esperienza diretta e quotidiana alla quale si dà spesso il nome di “ossessione securitaria”. Vediamo pericoli dovunque, non ci sentiamo di poter contare su nulla, non riusciamo a fare previsioni neanche sul nostro avvenire più prossimo (molti non possono neanche essere sicuri che manterranno il proprio posto di lavoro di qui ai prossimi sei mesi). Tema che Bauman ha trattato spesso nelle sue opere (e di cui questo Focus si è di recente occupato nel dettaglio: cfr. la recensione a Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, «Filosofia.it», luglio 2009), ma di cui mette in luce in questo libro un aspetto inedito: l’intreccio cioè tra la «mentalità da assedio» delle nostre società occidentali e il ruolo svolto dal mercato, che il sociologo polacco considera legate da una «evidente affinità elettiva» (p. 109).
Nell’era dell’individualismo capitalistico, la libertà personale reca con sé un pernicioso effetto collaterale: l’individuo – libero di fare qualsiasi cosa – è l’unico responsabile di tutto ciò che ne sarà di lui, delle sue scelte, del loro esito, della sua intera vita:
la paura della mancanza di certezza costringe gli individui ad un frenetico sforzo di autoformazione e di autoaffermazione. L’incertezza deve ora essere vinta con i propri mezzi; l’insufficienza di spiegazioni e di rimedi esterni deve essere compensata da quelli “costruiti” in proprio
(pp. 108-109; della libertà come “grazia a metà” Bauman ha parlato approfonditamente in La libertà, già recensito per «Filosofia.it», marzo 2009). Bauman accompagna l’affermazione precedente con l’immagine dello scultore, sulle cui spalle ricade interamente l’onere di intraprendere e di portare a termine il lavoro, ma che in questa impresa non è solo: perché, ecco, egli può contare sull’aiuto di strumenti atti all’esecuzione del suo compito, il cesello, la spatola, che egli potrà trovare in vendita nei vari “negozi”. Viene fuori così, quasi per caso, il rapporto
tra la privatizzazione della “gestione dell’incertezza” e il mercato che provvede a servire il consumo privato. Una volta che la paura dell’incertezza è stata riformulata nell’ansia dell’inadeguatezza personale, le proposte del mercato diventano irresistibili: esse vengono accolte e “scelte” spontaneamente, senza bisogno di alcuna coercizione e di alcuna opera di indottrinamento (p. 110).
Quale sia la causa e quale l’effetto, è impossibile da stabilire. La paura dell’inadeguatezza genera l’euforia consumistica? O non è piuttosto il mercato, con la sua esigenza di rinnovare continuamente i consumi, a indurre e perpetuare la paura? Il professore di Leeds commenta tuttavia che la questione ha una scarsa importanza, in quanto
come nel caso del capitalismo nell’interpretazione weberiana – il “gioioso velo dell’abbondanza” si è da tempo trasformato in una gabbia d’acciaio da cui non si vedono vie di fuga. La paura dell’inadeguatezza e la frenesia del consumatore sono strettamente intrecciate, si nutrono reciprocamente, e trovano l’una nell’altra, l’energia necessaria a sostenersi (pp. 110-111).
Bauman esemplifica questo rapporto parlando del corpo, che viene considerato oggi, nell’epoca della dissoluzione di tutti i riferimenti, un referente stabile, capace di garantire la continuità nel cambiamento. Un tempo il corpo veniva visto come una macchina da tener sempre perfettamente oliata, né più né meno di quanto necessario al suo perfetto funzionamento, stato nel quale gli si associava il termine “salute” (oppure, viceversa, “malattia”). Oggi, invece,
il corpo postmoderno è prima di tutto un recettore di sensazioni: assorbe e assimila esperienze, e la sua attitudine e capacità ad essere stimolato lo trasforma in uno strumento di piacere. La presenza di una tale attitudine/capacità è chiamata “benessere” (fitness); al contrario, lo stato di “mancanza di benessere” significa debolezza, indifferenza, svogliatezza, depressione, apatia verso gli stimoli; oppure indica una sensibilità limitata e un’attitudine “sotto la media” verso nuove sensazioni ed esperienze. “Essere depressi” significa non avere voglia di “uscire e di divertirsi”. In un modo o nell’altro, i “disordini” più diffusi e preoccupanti sono i “disordini” del consumo. Mantenere una buona forma fisica, significa mantenersi pronti ad assorbire e a recepire stimoli. Un corpo in buona salute è estremamente sensibile, uno strumento ben sintonizzato verso il piacere di qualunque genere: sessuale, gastronomico o derivante da esercizio fisico e pratiche di fitness (p. 113; va evidenziato che, all’inizio della citazione, Bauman utilizza il termine “postmoderno”, che a partire dal 2000 ha abbandonato; cfr. al riguardo il chiarimento presente nella recensione a Modernità e globalizzazione, «Filosofia.it», luglio 2009).
La sintesi, cui ci tocca in sorte di essere testimoni, tra il culto del corpo e l’esigenza di sicurezza dà luogo a una società nella quale non è assurdo – anzi – pubblicizzare un farmaco a base di vitamine con lo slogan “Proteggere la pelle dall’esterno, può non bastare”. Ovviamente il prodotto giura che proteggerà la pelle anche dall’interno e la manterrà sana. Quanto una cosa del genere vada considerata folle da parte di persone realmente sane (di mente) e quanto invece essa sia tutto sommato “in sintonia” con ciò che siamo abituati a sentire dalla mattina alla sera, è questione che meriterebbe ben altro approfondimento.
Per tornare al libro, Bauman fa osservare che la lista dei libri più venduti, indipendentemente dalle mode del momento, ne contiene sempre due tipi: quelli di cucina e quelli delle diete. I primi promettono il piacere dei sensi, ma compromettono la forma fisica; i secondi – a costo certo dell’autosacrificio e dell’autoflagellazione (p. 119) – la ripristinano, rendendo il corpo nuovamente disponibile per i piaceri futuri.
Questo riporta la riflessione al punto di partenza. Perché la difficoltà e l’onnipresenza del compito di mantenersi in perfetta forma fisica (compito della cui perfetta riuscita siamo infine gli unici responsabili)
genera una tipica “mentalità da assedio”: il corpo e in particolare il suo benessere, sono minacciati da ogni parte. E tuttavia non è possibile rendere le proprie difese impenetrabili, proprio perché lo scambio con il mondo esterno non è solo inevitabile, ma è anche esplicitamente desiderato: il suo livello di intensità rappresenta in fondo, uno degli scopi primari del “tenersi in forma”. Si delinea così una condizione di assedio permanente, destinato a durare per tutta la vita (p. 120).
(«Filosofia.it», dicembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano