giovedì 17 dicembre 2009

Considerazioni sulla violenza. Intervista a Luigi Zoja, 4 dicembre 2009

Luigi Zoja, in Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza (ed. Bollati Boringhieri, 2009) la violenza è intesa come un aspetto umano. Qualcosa da integrare e metabolizzare per evitare che esploda, non da negare o rifiutare.
L’uomo, per usare un’espressione celebre, non è né una bestia né un angelo. Bisogna assumere questo dato di fatto ed evitare quelle ingenue e funeste contrapposizioni tra il bene e il male, i fedeli e gli infedeli, noi e gli altri: perché "chi non accetta la presenza degli opposti è destinato ad incontrarla in forme patologiche". Abbiamo sentito l’autore su questo suo ultimo lavoro.


Dopo 6.000 anni di storia umana, 8.000 guerre ed altrettanti trattati di pace e soprattutto dopo le atrocità del “secolo breve” e di questo inizio di millennio, che considerazioni possiamo ancora fare sulla violenza?
La violenza è un terreno comune per lo psicanalista, l’antropologo, il sociologo, lo storico, il politologo. Da più di otto anni, in particolare dal 12 settembre 2001 (il giorno successivo all’attacco alle Torri gemelle di New York), mi interesso al ruolo della paranoia - cioè la ferma e genuina convinzione, ancorché basata su premesse erronee, di avere dei nemici - nella genesi della violenza all’interno delle nostre società occidentali. La paranoia, a differenza degli altri disturbi mentali, che quasi mai hanno conseguenze apprezzabili sul piano sociale, incide pesantemente
sulla società, come le vicende tragiche del XX secolo hanno ampiamente mostrato: è la paranoia ad esempio a favorire l’ascesa del nazismo (la paura di un complotto ebraico, frutto di pura fantasia) e l’azione politica di Stalin (basata sulla pretesa inconciliabilità delle classi sociali e dunque sulla necessità della lotta di classe). Per inciso, una delle più grandi conquiste del XX secolo, la diffusione dell’informazione, presenta un terribile risvolto: l’informazione cattiva si diffonde insieme a quella buona. Avviene così che i mass media funzionino come degli “amplificatori della paranoia”: un evento lontano e relativamente insignificante può divenire fonte di ansia quando i mezzi di informazione possono renderlo “vicino”, “in tempo reale”. Questo produce violenza laddove in altri tempi non ce ne sarebbe stata: la sola notizia di una violenza lontana è sufficiente a provocare il riarmo. Gran parte del lavoro teso a ridurre la violenza va indirizzato alla riduzione della paranoia, mostrandone in primo luogo l’infondatezza.

Ha parlato di “asimmetrica forza del male”: occorrono decenni per maturare un atteggiamento pacifico, ma basta un attimo per cedere al furore omicida. È solo una cattiva notizia, o possiamo trovarvi un motivo di speranza?
Si tratta di una ben triste realtà: l’educazione ha tempi di maturazione lunghissimi, la violenza può consumarsi in un attimo e senza preavviso. Ho narrato nell’ultimo capitolo del libro la vicenda della morte paradossale del monaco cristiano Almachio, sceso nell’arena di Roma per invitare a smetterla con i giochi gladiatori, morto lapidato dal pubblico infastidito dall’interruzione dello spettacolo. Ciò in un momento storico in cui il cristianesimo era già religione ufficiale, in cui quindi le idee di amore, pace e nonviolenza non erano certo inedite. L’esempio mostra quanto sia grande l’inerzia della violenza a confronto con le più alte convinzioni e dichiarazioni di principio. Il lato positivo è che esiste la possibilità di aspirare a una civiltà capace di non autodistruggersi (la nostra stessa sopravvivenza - non dimentichiamo che siamo sopravvissuti a ben due guerre mondiali e alla guerra fredda - lo testimonia): per costruirla, occorre lo sforzo in tal senso di tutte le forze, politiche, sociali, educative.

Ha parlato di un grande male della nostra società: la “vertigine dell’eccesso“. Di che si tratta?
Uno dei miei studi precedenti (Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, ed. Moretti e Vitali) riguardava proprio questo tema, cioè come si è arrivati in Occidente a smarrire il senso del limite - a fondarsi ad esempio su un’economia che trova il suo punto di equilibrio solo nella crescita continua. Smarrimento prefigurato dal passaggio dalla polis greca all’impero romano, e ancor prima dal passaggio dal monoteismo ebraico, chiuso in se stesso, al cattolicesimo dell’evangelizzazione universale; ma incredibilmente accelerato dall’odierna tecnologia. Parlo di “vertigine” perché questa ambizione non si è fermata di fronte a nulla, distruggendo tutte le altre forme di economia (penso soprattutto all’Africa e all’America Latina) e costringendo altri popoli (come ad esempio quello cinese e quello giapponese: i cinesi furono sconfitti nella “guerra dell’oppio” perché non volevano partecipare al commercio internazionale e tantomeno comprare oppio; il Giappone fu minacciato coi cannoni perché pure non voleva aprire i porti. Meno di un secolo dopo rispose con l’attacco di Pearl Harbor; la Cina sta rispondendo con una Pearl Harbor economica, capace di affondare buona parte dell’Occidente), che non chiedevano altro che “starsene per i fatti loro”, a cambiare stile di vita. È una vertigine anche perché si tratta di un processo ben difficile da arrestare adesso.

Ha scritto che “la mente moderna soffoca sotto l’urgenza“: la fretta spinge verso le soluzioni più facili e a buon mercato (spesso a problemi che - a guardarli con più calma - nemmeno sarebbero tali). Qui la politica più efficace sembrerebbe essere non quella più razionale, ma quella che meglio sa parlare per monosillabi.
Un monosillabo importante per il vivere sociale, ma ancor prima familiare, è “no”: sul no si basa ad esempio la rinuncia ad un bene immediato in vista del conseguimento di un bene differito. L’educazione si basa su questo, sulla capacità di fare progetti anche a lunga scadenza e di lavorare per il loro buon esito. Forse questo è uno dei motivi per cui ho preferito chiamare il libro Contro Ismene piuttosto che Per Antigone (l’eroina sofoclea sorella di Ismene): per sottolineare il bisogno di emanciparsi da una psicologia provinciale e conformista, come quella di Ismene, incapace di smuoversi e di evolversi anche di fronte all’ingiustizia. Una certa politica ha buon gioco, in quest’epoca frenetica, nello spacciare per buon senso ciò che è solo demagogia. È lampante nel caso dell’immigrazione: si fa appello alla sicurezza, all’identità, alle proprie “radici” in maniera generica e inconsistente, ma soprattutto dimenticando che gran parte del tenore di vita che si ha oggi in Italia è dovuto alla presenza dei 4.000.000 di immigrati che vivono e lavorano in questo paese (proprio come i milioni di italiani emigrati nei decenni precedenti hanno fatto per le economie statunitense, tedesca, svizzera). Tuttavia, quella dell’urlo e dello slogan non è l’unica politica possibile: c’è la possibilità - una volta lasciate alle spalle le utopie massimaliste dei totalitarismi di vario tipo - di perseguire utopie minimaliste, relative cioè a obiettivi condivisi e limitati, quali ad esempio la cura dell’ambiente; progetti cioè che richiedano, sì, una riflessione più ampia e diffusa, ma anche concreti e tangibili, alla portata di tutti.

Antigone invoca la legge universale perché riflette nella prospettiva dell’intero universo, dell’eterno; Ismene e Creonte pensano invece nell’orizzonte del presente immediato, della contingenza del loro villaggio. La quantità di violenza è proporzionale alla ristrettezza del proprio punto di vista? Quanto in questo senso può dirsi non-violento il monito di Periandro di Corinto ad “aver cura del tutto“?
Sì, la quantità di violenza è proporzionale alla ristrettezza del proprio punto di vista. È chiaro che il contesto sociale ha una grande influenza al riguardo: un paese multietnico come ad esempio la Svizzera (dove ho vissuto per diversi anni), abituato a convivere con la diversità, è per così dire automaticamente più tollerante di altri. Ciò non toglie che la violenza, come dicevamo all’inizio, può esplodere comunque in un attimo: il recente referendum svizzero sul divieto di costruire minareti ne è una dimostrazione evidente. Del resto, assistiamo ancor oggi a fenomeni di repentina “riprovincializzazione” (evidenti nel corso di guerre civili come i genocidi in Bosnia o in Armenia), in cui all’improvviso si squarcia i legame di solidarietà umano - esistente fino al giorno prima - tra connazionali, concittadini, perfino tra vicini di casa. La visuale si restringe improvvisamente e la violenza dilaga. Bisognerebbe saper mantenere ampia la propria prospettiva; bisognerebbe saper avere cura del tutto.

("Il Recensore.com", 17 dicembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano