lunedì 28 settembre 2009

You better run



Come fa un nazista a battere sui 100 metri l’avversario ebreo? Semplice, lo brucia in partenza,
diceva la vetusta battutaccia che da adolescenti si raccontava senza neanche capire bene di cosa si parlasse. Ho letto invece (purtroppo solo di recente) sul “Sole 24 Ore” qualcosa di molto meglio, che riporto integralmente:
Corri che ti passa. La crisi, negli Stati Uniti fra i tanti problemi causati, ha avuto qualche effetto positivo sulle prestazioni atletiche dei cittadini. La spiegazione è semplice: sembra che molte persone, dopo aver perso il lavoro, abbiano deciso di impegnare il tempo libero facendo sport. La prova si trova su internet, dove il sito athlinks.com ha registrato non solo un aumento delle iscrizioni alle competizioni, ma anche un miglioramento delle prestazioni in tutte le classi di età. A togliersi il gessato per mettersi le scarpette da maratona, infatti, non sono solo i manager disoccupati, ma anche molti giovani, che continuano la carriera sportiva iniziata al college, anziché correre alla ricerca di un posto di lavoro. Insomma di questi tempi gli americani sembrano sì diventati più poveri, ma anche più veloci. Se il trend continuasse potrebbero essere proprio i produttori di abbigliamento sportivo i primi a beneficiarne. La sola Asics da inizio anno ha guadagnato sui listini il 40%. Una corsa in Borsa fuori dalla crisi (di G. Ve., “Effetti benefici da perdita d’impiego”, 10 luglio 2009, p. 39).

L’ansia di perdere il posto di lavoro genera stress, mal di testa, gastrite, insonnia, depressione. C’è poco da ridere

Altro che irrisione dell’Olocausto. Questa sì che è forte: si guardi con quale sensibilità si parla di gente che ha perso il posto di lavoro e che ora, sì, è più povera, ma anche più veloce; con quale sottigliezza si riesce a scorgere un lato positivo anche dove non c’è (giovani che - dopo la brusca interruzione del lavoro precedente, ciò che li avrebbe resi finalmente adulti - tornano alla condizione imberbe del “college”); con quale profondità di analisi si può gioire di un aumento del fatturato di un’azienda a fronte della perdita economica, umana e sociale di milioni di persone (e chi se ne frega? basta che il PIL salga, che “i mercati reagiscano bene”). Al giornalista che ha siglato questo pezzo vorrei chiedere: Le è mai capitato di perdere il lavoro e di ritrovarsi - Suo malgrado, non per scelta - a correre come un liceale, toccando così con mano gli “effetti benefici da perdita d’impiego”? O di osservare la tragedia di una persona che Le è cara e che, perso il lavoro, sente il mondo vacillare sotto i piedi?
Quando si raccontava una freddura sugli ebrei si stava attenti a valutare la sensibilità dell’uditorio: nessuno si sarebbe sognato di recitarla in presenza di qualcuno che avesse perso un parente in un campo di sterminio. Qui, su un quotidiano nazionale che si rivolge per propria vocazione di stampa pubblica “a tutti”, leggo oggi che di queste cose si può anche parlare con una certa leggiadria, con spensieratezza e – perché no? – un pizzico d’ironia. Allora, caro redattore, senta queste altre amenità: l’ansia di perdere il posto di lavoro genera stress e disturbi di ogni tipo, dal mal di testa alla gastrite all’insonnia. A molti non va così bene e si ammalano di depressione. Altri invece decidono di farla finita: cinque degli ultimi dieci suicidi nella provincia di Caserta da cui scrivo sono riconducibili a problemi economici, alla disperazione di non riuscire a trovare un lavoro, ai debiti, alla povertà.
Immagino alcuni titoli che, similmente, si potrebbero scrivere. Sulla pandemia “A”: “al rialzo i titoli farmaceutici; le aziende brindano: ‘alla salute!’”; o sugli incendi in California: “Listini delle imprese ricostruttrici ai cieli. E le altre? Bruciano d’invidia”. Che ridere. Da morirne.

(«Il Caffè», 25 settembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano