Non voglio mettermi a sparare – come si dice – sulla Crocerossa. In questi ultimi mesi di Bernard Madoff si è parlato tanto, tantissimo, e sempre allo stesso modo: cioè per dirne tutto il male possibile. Condannato a metà giugno a 150 anni di carcere per una truffa finanziaria da 65 miliardi di dollari (“la più grande della storia”, secondo il “Guardian”), nell’ambito della quale si è macchiato tra l’altro di frode, riciclaggio di denaro, spergiuro e falsa testimonianza (tutte cose di cui si è dichiarato colpevole) e che ha coinvolto istituti internazioni di credito della grandezza delle britanniche HSBC e Royal Bank of Scotland, nonché delle italiane Unicredit e Banco Popolare, è diventato – nell’arco di poche settimane – simbolo dell’“era dell’irresponsabilità”: l’odio personale nei suoi confronti è arrivato, in America, alla commercializzazione di una statuetta di gesso con le sue fattezze, da demolire a colpi di martello (contenuto nella confezione).
Eppure, fino a un giorno prima dello scandalo, “Bernie” veniva considerato un pilastro di Wall Street. Settantunenne newyorkese di origine ebraica, Madoff era un imprenditore finanziario molto stimato nella sua comunità, tanto da venir soprannominato “l’obbligazione ebraica”, per la solidità che offriva ai clienti. Il premio Nobel Elie Wiesel (anch’egli truffato) lo definiva un “dio”; la sua famiglia era molto ben voluta per il generoso supporto ad organizzazioni filantropiche.
Possibile che a nessuno fosse sorto il sospetto che Madoff operasse in modo troppo “creativo”, magari secondo lo “schema Ponzi” (nel quale gli “interessi” promessi vengono corrisposti non tramite i proventi dell’attività finanziaria ma grazie ai capitali depositati dai nuovi clienti assunti; ciò implica che il sistema appare perfetto fin tanto che i clienti conservano la fiducia, e che esso collassa inesorabilmente – com’è avvenuto – quando i rimborsi richiesti, per la paura di un crollo, per la mancanza di fiducia nei mercati, raggiungono una quota consistente)? I sospetti li avevano avuti, e in molti, tanto che la SEC, l’ente governativo statunitense preposto alla vigilanza della Borsa (omologo dell’italiana CONSOB), teneva d’occhio la Bernard Madoff Investement Securities fin dal 1992. Tuttavia essa non aveva rilevato alcuna grave violazione.
Ma il punto non è neanche tanto questo. Anche se lo avessero scoperto, infatti, magari dieci anni fa, cosa ne sarebbe stato delle truffe analoghe svelate «quasi ogni settimana» dalle autorità statunitensi, come riferiva il “Financial Times” a marzo scorso? Siamo in presenza di fenomeni così diffusi da eccedere ogni verosimile possibilità di controllo. Perché il controllo funziona efficacemente solo quando si rende necessario per un numero limitato di casi. Quando in questione è invece una intera mentalità – quella liberistica del far soldi a tutti i costi e il più possibile a buon mercato e in tempi brevi, mentalità che coinvolge le istituzioni finanziarie ma gli stessi clienti, le autorità di controllo e tutti coloro che partecipano all’attività economica – non c’è “riforma” né “moralizzazione” che tenga. Questo sistema economico-antropologico non può essere “aggiustato”. Ora magari Madoff ci fa pena, anziano e incarcerato; e si può capire. Ma la mia speranza è che un giorno arrivino a farci pena quelli come lui anche quando sono al culmine del successo. Che la responsabilità, per noi, torni a essere una virtù.
(«Il Caffè», 25 settembre 2009)
martedì 29 settembre 2009
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