mercoledì 8 luglio 2009
Z. Bauman, L'arte della vita, ed. Laterza, 2009
“La vita imita la cattiva televisione”, sentenziò Woody Allen in Mariti e mogli (1992). Una boutade che Bauman ha fatto sua in più di un’occasione, nel mostrare quanto i modelli delle odierne generazioni di giovani (e non solo) siano in gran parte personaggi televisivi e quanto la loro percezione del “come va il mondo” provenga dalle idee sottese agli spettacoli di intrattenimento, in particolare i reality: «le persone si costruiscono la loro visione del mondo in base alla loro esperienza di vita. […] Le giovani generazioni […] si identificano più che altro con le azioni e confessioni dei protagonisti dei reality show televisivi di successo come Il Grande Fratello. […] Questi reality televisivi […] mandavano il messaggio che nessuno è indispensabile e che nessuno può pretendere di guadagnare qualcosa solo perché ha contribuito in modo determinante al lavoro comune, e ancor meno perché ha semplicemente partecipato. Il messaggio era: la vita è un gioco duro fatto per i duri. Ogni nuovo gioco rimette il conteggio a zero, i meriti passati non contano più e si vale quel che si vale per il tempo della gara. Ogni giocatore gioca per sé, salvo che per progredire bisogna allearsi con alcuni giocatori ed escluderne altri che a loro volta non si farebbero scrupolo di escludere i primi se ne avessero l’occasione. Ma il fine ultimo è di escludere anche quei giocatori con cui si è collaborato quando non c’è più bisogno di loro. […] I giovani di oggi […] pensano anche loro che il mondo sia fatto per i duri, gente abituata a fare affidamento sulla propria astuzia e sempre tesa a guadagnare vantaggio sugli altri» (Homo consumens, ed. Erickson, 2008, pp. 75-76).
Ma per Bauman la vita non è una successione di prestazioni, bensì un’opera d’arte; egli ritiene che non si tratti di un postulato o di un monito, bensì di una constatazione di fatto: «la vita, se è vita umana – la vita di un essere dotato di volontà e libertà di scelta – non può non essere un’opera d’arte. Volontà e scelta lasciano la propria impronta sulla forma di vita, per quanto si tenti di negarne la presenza e/o di nasconderne il potere attribuendo il ruolo di causa alla presunta pressione schiacciante di forze esterne che impongono l’“io devo” dove avrebbe dovuto esserci l’“io voglio”» (p. 69). Ancora Jean-Paul Sartre intende la vita come un progetto (projet de la vie), come una mappa stradale da tracciare e seguire in maniera precisa, una volta individuato il punto in cui si intende giungere. Ma, con il sorgere della “modernità liquida”, l’uomo non concepisce più la propria vita come il luogo dell’esercizio di un’arte, la realizzazione di quel capolavoro unico e irripetibile che è, appunto, la vita; sempre più spesso l’uomo pensa al proprio futuro non in termini di qualcosa da costruire passo dopo passo, compiendo le scelte giuste e lavorando sodo, bensì come qualcosa che potrà avere una “svolta” grazie a un colpo di fortuna, all’imponderabile (ad esempio, perfino dopo le entusiastiche dichiarazioni del presidente Sarkozy circa il “lavorare di più per guadagnare di più”, un sondaggio Tbs-Sofres ha rivelato che i cittadini francesi ritengono che i metodi migliori per arricchirsi siano il lavoro – 40% – e una vincita alla lotteria – 39%). La vita non viene concepita come un progetto di vita, ma come una lotteria.
Tornando allora al rapporto tra la percezione del mondo e la televisione che la alimenta, viene da pensare ad Affari tuoi, gioco televisivo che da diversi anni va in onda tutte le sere sulla RAI (attualmente condotto da Max Giusti: il funzionamento del gioco è spiegato dalla wikipedia italiana all’indirizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/Affari_tuoi#Modalit.C3.A0_di_gioco). Il successo o il fallimento è assolutamente indipendente dalle qualità, dalle capacità e perfino dalle azioni del concorrente (il quale ignora il contenuto dei pacchi che sceglie o condanna); eppure sua, e solo sua, è la responsabilità dell’esito del gioco (tanto che il conduttore non manca mai di sottolineare con un elogio la scelta – cioè l’eliminazione – di un pacco “inutile”, così come non risparmia un rimbrotto al concorrente per la scelta di un pacco contenente un importo elevato). Il gioco in sostanza non è altro che una sequenza di scelte: il concorrente sceglie il pacco da aprire di volta in volta, sceglie se cambiare o meno quello che gli è stato affidato inizialmente, sceglie il contenuto delle buste che andranno inserite nei pacchi “sorpresa”, etichettati con “X” e “Y”; e tuttavia ogni scelta viene effettuata alla cieca, a caso. Anche qui il parallelo tra le realtà e la messa in scena appare immediato (anche grazie al continuo riferimento del conduttore a come la vita potrebbe cambiare, è un gioco, sì, ma che cambia la vita, ecc.): nulla della tua vita dipende da te, ma da eventi fortuiti, ciechi e incontrollabili; ciò nonostante, la responsabilità di tutto ciò che ti accade è tua e soltanto tua (meccanismo che si fonda sulla frattura moderna tra libertà di diritto – come quella di scegliersi il governo che si preferisce o la propria carriera lavorativa – e libertà di fatto – che sovente si riduce alla mera libertà di scegliere tra i prodotti da consumare: cfr. al riguardo Z. BAUMAN, La libertà, «Filosofia.it», febbraio 2009).
Che ne è dunque, per noi oggi, dell’arte della vita? Nella modernità liquida, in cui tutto diventa incerto e instabile, il punto di arrivo (per rimanere nell’ambito della metafora della mappa stradale prima delineata) diventa nebbioso, tutte le guide acquisiscono la stessa (scarsa) autorevolezza, il percorso tracciato è suscettibile di infinite e repentine modificazioni: «nel nostro mondo liquido-moderno esercitare l’arte della vita, trasformare la propria vita in un’“opera d’arte” equivale a trovarsi in uno stato di trasformazione permanente, a ridefinire perennemente se stessi diventando (o almeno tentando di diventare) un altro rispetto a quello che si è stati fino a quel momento» (p. 94; cfr. al riguardo, in particolare circa le implicazioni nell’ambito dell’istruzione e della propria formazione personale, Z. BAUMAN, Intervista sull’educazione, «Filosofia.it», maggio 2009). Rendendo l’individuo un’entità incapace di definirsi, di conservarsi e di immaginare in proiezione dove potrà essere nel futuro, si spiana così la strada a quel fatalismo tipicamente occidentale che ama affidarsi agli “esperti”, inseguire mode imposte dall’alto, idolatrare le “leggi” dell’economia e del progresso. Dove tutto ciò conduca è presto detto: a una società che produce sempre più ricchezza materiale (tralasciando in questa sede il problema dell’iniqua distribuzione) ma che è sempre più stressata (cfr. in proposito l’ottimo saggio di O. James, Il capitalista egoista, ed. Codice, 2009) e meno felice: «il mondo generato dal “progetto moderno” si comporta come se gli uomini andassero costretti a ricercare la felicità [...] Gli uomini tendono ormai a essere allenati, educati, esortati, allettati e tentati, sette giorni la settimana per ventiquattr’ore al giorno, ad abbandonare le modalità che parevano corrette e adeguate, a voltare le spalle a ciò che tenevano in gran conto e che pensavano potesse renderli felici, e a diventare diversi da come sono [...] Come ha abbondantemente mostrato l’esperienza storica, la coercizione a essere liberi non conduce mai, o quasi, alla libertà. Lascio ai lettori di decidere se la coercizione a cercare la felicità nella forma praticata dalla nostra società dei consumatori liquido-moderna, renda felice chi vi è costretto» (pp. 64-65).
(«Filosofia.it», luglio 2009)
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