mercoledì 8 luglio 2009

Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, ed. B. Mondadori, 2005


All’alba della loro formazione, le città erano costituite dal tessuto organico di tutti coloro che vi appartenevano: operai, commercianti, nobili, artisti e perfino gli squattrinati e i mendicanti. Ognuno di essi aveva un posto e un ruolo specifico nella società, nella quale c’era poca mobilità ma molta stabilità: era perciò difficile (non impossibile) che un bottegaio diventasse ricco commerciante, ma altrettanto difficile era “perdere il lavoro”. Tutti i cittadini facevano parte della città e così si distinguevano da tutti gli altri, che invece alla città non appartenevano: la città era fortificata da mura di cinta per proteggersi dai pericoli esterni delle invasioni o delle incursioni di forestieri mal intenzionati, ma al suo interno era pacificata, non c’era nulla da cui doversi proteggere. Il principio su cui tale città si fondava era l’inclusione.
Le città della nostra modernità, spiega Bauman in questo agile ma intenso libro, Fiducia e paura nella città, edito da Bruno Mondadori, non hanno più questa prerogativa. I movimenti della globalizzazione e la fluidità sociale della “modernità liquida” conducono le nostre città ad assumere una forma piramidale, al cui vertice si collocano quelle fasce della popolazione che sono ben inserite nel mondo dell’economia e che – dal punto di vista dei loro interessi e delle loro attività (un europeo può star investendo tutti i suoi capitali a Taiwan o magari aver delocalizzato i suoi impianti industriali in Ecuador) – non sono di fatto neanche abitanti della città in senso stretto; mentre alla base si trovano coloro che nel meccanismo economico non sono riusciti ad entrare (o ne sono usciti a causa delle turbolenze del sistema) e che ne stanno ai margini.
Ma il loro stare ai margini non è una semplice passività inerte: con la loro spinta continua essi diventano un problema sempre più pressante per una società che non ha più posto per loro e che, tranne pochissime eccezioni, non ne avrà nemmeno in futuro. Questo avviene perché, ancora cinquant’anni fa, un’industria in espansione poteva ancora promettere, a chi veniva licenziato, di essere assunto di nuovo, magari altrove, in un arco di tempo ragionevole. Ma oggi la globalizzazione ha messo fine all’espansione: e dove non c’è più espansione, il fatto che qualcuno guadagni più di prima implica che qualcun altro guadagni di meno (o che non guadagni affatto, come nel caso appunto dei disoccupati. Sulla transizione da disoccupati a esuberi cfr. Z. BAUMAN, Lavoro, consumismo e nuove povertà, già recensito per «Filosofia.it», febbraio 2009). La condanna all’esclusione, alla superfluità è permanente; anzi, sottolinea Bauman, «si tratta di uno dei pochi casi di “permanenza” che vengano non solo consentiti ma anche attivamente incoraggiati dalla società “liquida”» (p. 11). Le classi di uomini “inutili” costituiscono una denuncia continua di questo sistema economico che non è affatto in grado – come pur ha sempre promesso – di recare prosperità e benessere a tutti; la loro semplice presenza è una minaccia destabilizzante per il sistema. Ecco che, di colpo, gli “esclusi” diventano i “pericolosi”, da cui ci si deve difendere, poiché essi non vivono in una lontana riserva recintata, ma alla periferia di quelle stesse città in cui i ricchi sono costretti a blindarsi. In questo modo la tendenza classica della città all’inclusione si inverte in quella all’esclusione, il pericolo interno diventa preminente, le città non sono più luoghi in comune per una vita sociale d’integrazione ma posti in cui ogni atomo umano della società disintegrata non chiede altro che isolarsi (ed ecco che le case, ad esempio, si trasformano in “appartamenti”, luoghi cioè in cui starsene appartati).
Tutto ciò avviene, secondo l’Autore, perché non vi è più, come in passato, una élite locale che si faccia carico dell’istanza d’inclusione dei meno abbienti. Un tempo, anche il giovanotto meno capace e istruito poteva sperare di trovare lavoro “a servizio” presso qualcuno di rango diverso. Oggi, semplicemente, non esiste più alcuna élite locale, gli interessi dei potenti sono disseminati nel cyberspazio ed essi potrebbero condurre la loro vita allo stesso modo in Giappone, negli Stati Uniti o in Francia. Così Bauman: «la secessione della nuova élite globale, il suo distacco dagli impegni che aveva in passato con il populus del luogo, e il crescente divario tra gli spazi in cui vivono i secessionisti e quelli in cui vive chi è stato lasciato indietro, è probabilmente la più significativa delle tendenze sociali, culturali e politiche associate al passaggio dalla fase solida alla fase liquida della modernità» (p. 16).
Di conseguenza, anche lo spazio urbano si modifica in funzione dell’esigenza di protezione e di segregazione: spuntano in ogni dove telecamere che sorvegliano il movimento dei passanti, le panchine assumono bordi smussati che le rendono scomode (ciò evita che sia piacevole sedervisi e intrattenervisi a lungo), o le si elimina del tutto (come alla stazione di Copenaghen), vengono installati spruzzatori nei muri per allontanarne i vagabondi. In certi posti d’Italia è proibito sedersi sulle panchine in più di 3 persone; in altri è vietato mangiare panini al di fuori dei locali; altrove non ci si può appisolare all’aperto; altrove ancora non si può passeggiare portando in mano vino o birra. Ci si potrebbe ritrovare, da turisti, a venir sanzionati per un gesto inconsapevole, condannato dalla normativa locale. Le esigenze dell’ordine prendono il sopravvento su quelle dell’ospitalità.
L’inversione che la città manifesta (il passaggio cioè dall’inclusione all’esclusione) è per Bauman simbolo della strada che l’intera modernità ha imboccato, denominata “progresso”: «il “progresso”, un tempo manifestazione estrema di ottimismo radicale e promessa di una duratura e universalmente condivisa felicità, è finito agli antipodi, ove si fanno spaventose e fatalistiche previsioni, e ora rappresenta la minaccia di un inesorabile, inevitabile mutamento. [...] Invece che grandi aspettative e dolci sogni la parola progresso evoca un’insonnia colma d’incubi» (p. 41). La città – un tempo simbolo di civiltà in opposizione alla barbarie dello stato di natura – è divenuta luogo della guerra di tutti contro tutti, dove ogni lucchetto che aggiungiamo alle nostre porte aumenta piuttosto che diminuire il nostro senso di insicurezza. È divenuta il luogo in cui si produce e si alimenta proprio quello stato di natura che si intendeva combattere, a dispetto di ogni misura repressiva, anzi, proprio grazie ad esse. Uscire da questo tunnel è possibile, conclude il professore di Leeds: bisogna recuperare e mettere nuovamente al centro dell’organizzazione sociale ciò che distingue appunto l’umanità dal branco: «la società umana è diversa dal branco di animali perché qualcuno può sostenervi; è diversa perché è in grado di convivere con degli invalidi, tanto che storicamente la società umana potrebbe dirsi nata insieme con la compassione e con l’aver cura; qualità soltanto umane. La preoccupazione odierna è tutta qui: portare questa compassione e questa sollecitudine sul piano planetario. [...] Non riesco a pensare a niente che sia più importante di questo. È da qui che si deve cominciare» (p. 79).

(«Filosofia.it», luglio 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano