Premetto che – nonostante il titolo – non scrivo per difendere la categoria. Sono funzionario pubblico: e me ne vanto, aggiungerei, se non temessi di suscitare un’irrefrenabile e diffusa ilarità, che reputo tanto immotivata quanto comprensibile. Quello che riguarda la Pubblica Amministrazione (P.A.) è infatti essenzialmente uno di quei luoghi comuni (come quelli che tipicamente mettono i carabinieri al centro di irriverenti barzellette; ma di questo mi propongo di parlare altrove) che, sì, hanno un fondo di verità e che ciascuno di noi può forse basare su qualche sfortunata esperienza personale, ma che sono frutto di una generalizzazione estesa fuori misura, la cui statistica è parziale fino all’ingiustizia e che, soprattutto, non sta al passo con i tempi.
Perché le cose, negli ultimi 15 anni, sono cambiate tanto. Ne rende conto il libro scritto a quattro mani da Stefano Sepe ed Ersilia Crobe, Società e burocrazie in Italia (ed. Marsilio, 2008), che ricostruisce la nascita e l’evoluzione della burocrazia italiana e ne esamina in prospettiva le esigenze e le possibilità.
La P.A. non è una palla al piede dell’economia, ma uno dei motori dello sviluppo. Allo stesso tempo, non bisogna perdere di vista i compiti di inclusione sociale propri dello Stato.
S. SEPE, E. CROBE, Società e burocrazie in Italia, ed. Marsilio
S. SEPE, E. CROBE, Società e burocrazie in Italia, ed. Marsilio
Studio approfondito e molto ben documentato che restituisce un’immagine sobria ed insolita della P.A., alleata vilipesa ma indispensabile di un sistema economico che non può fare a meno delle sue virtù, come ha suggerito Alain Touraine e ha «ribadito recentemente il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, secondo il quale “una delle lezioni dei casi di successo della globalizzazione è il ruolo delle buone istituzioni: garantire certezza del diritto, efficienza della giustizia, onestà ed efficacia dell’amministrazione è indispensabile per promuovere lo sviluppo economico” del nostro Paese» (p. 232).
La P.A. è dunque una promotrice dello sviluppo, non un freno; un motore dell’economia (anche se, ovviamente, non l’unico). Essa perciò non va criminalizzata, bensì resa più efficace. La criminalizzazione della P.A. (senza voler negare luci ed ombre di questo o quell’impiegato, servizio o Istituto) è strumentale a coloro che hanno interesse a far apparire la categoria del lavoratore pubblico come un fannullone e un privilegiato: in questo modo è loro più facile legittimare uno stato sociale che riduce ogni giorno di più il numero e l’entità delle tutele per le categorie deboli della comunità, a favore di quelle più forti, che non si fa altro che incentivare perché “creano ricchezza”. Mettendo i “pubblici” contro i “privati”, oltretutto, si ottiene un altro effetto strumentale, quello di distogliere l’attenzione dal vero responsabile dello smantellamento del welfare state: il mercato globale, con le sue distorsioni e contraddizioni peculiari.
È chiaro che il lavoro da fare è ancora tanto: bisogna diminuire gli sprechi, alleggerire le procedure e razionalizzare le organizzazioni; al contempo bisogna però lottare contro l’evasione fiscale, «senza far evaporare lo Stato e senza perdere di vista i compiti di inclusione sociale che sono propri dei poteri pubblici» (p. 252). Ma va fatto insieme, in un clima di fiducia e di armonia. Quando si sta tutti su una barca in alto mare, bisogna remare, unitamente, verso la terra. Siatene certi: chi si attarda ad attribuire responsabilità, agitandosi e sbraitando, non sta pensando alla costa, ma a chi gettare in acqua.
(«Il Caffè», 19 giugno 2009)