domenica 21 giugno 2009

Un sistema criminale. Intervista a padre Alex Zanotelli


Alex Zanotelli, missionario comboniano, per molti anni direttore di «Nigrizia», autore di diversi libri (con «l’Altrapagina» ha pubblicato Il ritorno della guerra), si trova oggi presso i Comboniani di Casavatore, in provincia di Napoli. Abbiamo approfittato della sua grande esperienza personale, soprattutto nella baraccopoli di Korogocho, alla periferia di Nairobi, per comprendere meglio il problema dell’immigrazione in Italia, fenomeno sul quale sono spesso e dolorosamente costretti a tornare i giornali. Abbiamo formulato le domande in maniera “provocatoria”, provando ad assumere la prospettiva della maggioranza di governo, nel tentativo di esporre le motivazioni di questa politica e di quella fetta di popolazione che la sostiene, presupponendo che entrambe non agiscano per egoismo puro, ma perché mosse da paure ed esigenze precise – che magari trovano sbocchi normativi e applicativi inadeguati (e che noi non condividiamo) – ma che non di meno sono presenti. Il tentativo è stato
dunque quello di non demonizzare l’avversario, di non tacciarlo a priori di malafede (ciò che è invece l’odierno costume della nostra politica nazionale), ma quello di dare spazio anche al suo punto di vista. Come c’era da aspettarsi, ciò ha conferito una forza ulteriore alle risposte di padre Alex, che mette in risalto i limiti di una ragionevolezza che si accontenta di soluzioni facili, a portata di mano, ma dal respiro corto; diversamente dalle soluzioni vere, che per andare alla radice del problema hanno bisogno di un rovesciamento di paradigma.

La Chiesa ha spesso sottolineato che l’immigrazione – se da un lato può recare vantaggi allo sviluppo locale – dall’altro richiede attenzione (il che implica certo l’accoglienza, ma anche la cautela). Può in questo senso una legge che limita i flussi migratori venir considerata una “tutela dell’ordine” dello Stato? In fin dei conti dello Stato italiano fanno già parte più di 3.000.000 di immigrati; la tutela dell’ordine è anche nel loro interesse.
La prima cosa da comprendere sull’immigrazione è la seguente: non va considerato criminale colui che tenta di emigrare senza documenti; al contrario, vanno considerati criminali quei sistemi economici e finanziari che inducono la gente a scappare, a lasciare i propri paesi d’origine, le proprie famiglie. La Chiesa deve dirlo; denunciare i veri colpevoli del disastro dell’emigrazione di massa è un nostro preciso dovere come cristiani e come uomini di verità: e la verità è che nessuno lascia la propria terra natia se vi si trova bene, è ovvio, nessuno abbandona i propri cari se non vi è costretto. Prima di affrontare il problema dell’immigrazione, dunque, dobbiamo rovesciare la nostra prospettiva: va detto a chiare lettere che è paradossale che nel nostro mondo non vi siano argini per le merci ma ve ne siano per le persone; ciò è contrario alla stessa Dottrina Sociale della Chiesa. La Pacem in terris afferma il diritto a emigrare; parimenti, va tenuto bene a mente che per questa gente disperata emigrare non è una delle tante scelte a disposizione. Questa è gente che scappa perché vi è costretta. Lo Stato italiano ha certamente il diritto e il dovere di preservare l’ordine, a vantaggio di tutta la collettività; ma, per farlo, non può andare contro il diritto internazionale e contro la stessa Costituzione della Repubblica italiana, che per ben due volte (artt. 10 e 117, n.d.r.) sancisce il diritto all’asilo politico, senza “se” e senza “ma”.

Poiché le statistiche segnalano che chi non ha un lavoro e un reddito stabili tende a delinquere più degli altri, si auspica spesso un inserimento degli immigrati a pieno titolo nel mondo produttivo, con misure ad hoc che favoriscano l’integrazione. Ciò non darebbe luogo secondo Lei ad una discriminazione “al contrario”, cioè a sfavore dei cittadini nati in Italia, per i quali nessuna misura ad hoc è prevista in tal senso?
Non mi convince la correlazione tra povertà e criminalità. Per quanto mi riguarda, direi che non è l’occasione a fare l’uomo ladro, ma la fame e la sete. È un dettaglio spesso trascurato, ma che reputo fondamentale evidenziare, che la stessa morale cattolica non condanni come “furto” l’appropriazione “indebita” di ciò che serve all’uomo per soddisfare un suo bisogno essenziale. Come a dire: la proprietà è sacra, ma la vita lo è di più. Ho vissuto molti anni a Korogocho, dove mi sono immerso in situazioni di povertà estrema; tuttavia perfino lì non ho riscontrato alcuna correlazione tra la povertà e la criminalità. Direi piuttosto che la delinquenza ha a che fare con il rifiuto subìto, con l’emarginazione, con la mancanza d’amore. Ben inteso: c’è di sicuro un certo legame tra la povertà e la criminalità (come dicevo prima: la fame fa l’uomo ladro), ma accentuando esageratamente questo aspetto si rischia di mettere in ombra tutti gli altri, facendo alla fine il gioco del sistema dominante, cui interessa legittimare le sue strategie di esclusione e di chiusura (le stesse che consentono alla minoranza ricca di Nairobi di tenere ai margini 3 milioni di baraccati, dai quali essi dovranno necessariamente difendersi). Dal problema della criminalità si può uscire a mio avviso solo entrando in una economia che garantisca a tutti un minimo per vivere e per sentirsi uomini e donne. È a questo obiettivo che una politica “giusta” deve indirizzarsi, a tutti i livelli: senza favorire un gruppo a scapito di un altro, ma dando vita piuttosto a un tessuto sociale in grado di sostenere tutte le fasce deboli delle popolazione, nessuno escluso.

Il Dossier Caritas/Migrantes 2008 sull’immigrazione fa rilevare che, in certa misura, abbiamo bisogno degli immigrati, perché «la transizione demografica in atto sta trasformando l’Italia da Paese dall’età media avanzata in un Paese tra i più vecchi del mondo, mentre il mercato – per produrre ricchezza – abbisogna continuamente di nuovi innesti lavorativi». Questa affermazione potrebbe essere letta come segue: è il mercato a dover decidere chi sta dentro e chi sta fuori. L’immigrazione è una questione economica come un’altra. Cosa ne pensa?
Non accetto un mondo la cui unica legge è quella del profitto e la cui unica logica è quella del mercato. L’attuale distribuzione della ricchezza è assurda: secondo l’economista Susan George, attualmente il 15% della popolazione mondiale detiene l’85% delle risorse del pianeta, e la metà della ricchezza complessiva si trova nelle mani di 300 famiglie; al contempo, 3 miliardi di esseri umani vivono con meno di 2 dollari al giorno, 962 milioni – secondo la stima della FAO – sono “affamati” e altri 100 milioni – secondo la Banca mondiale – si ritroveranno, in seguito all’ultima crisi finanziaria, a vivere in condizioni di povertà estrema. Ma tutto ciò è assurdo: in questo mondo c’è ricchezza a sufficienza per tutti. Credo che qui sia illuminante il pensiero di Balducci: ci troviamo in prossimità di un “salto di qualità” verso un’umanità diversa; così come gli ominidi, a un certo punto del loro sviluppo, furono costretti dalle condizioni ambientali ad evolversi in Homo sapiens, allo stesso modo dobbiamo oggi evolverci in una umanità migliore, più solidale e in grado di guardare al bene del tutto, non solo a quello della parte. Oppure, ci distruggeremo nel corso della catastrofe ambientale che si delinea all’orizzonte. Perché questo sistema economico e finanziario è insostenibile, umanamente ed ecologicamente; anche in quanto Chiesa, abbiamo il dovere di parlar chiaro, di denunciarlo. La logica degli Stati nazionali dev’essere superata, abbiamo bisogno di una governance globale all’altezza dell’unico mondo – globale, appunto – che siamo. L’uomo e la donna vanno rimessi al centro, non l’economia, foss’anche “razionale”. Questo sistema non può dare la felicità: perfino i ricchi, oggi, sono sempre più infelici. Mi colpisce molto quello che ha scritto Nelson Mandela in chiusura della sua autobiografia: durante l’apartheid, i neri erano infelici perché esclusi; ma anche i bianchi erano infelici, perché costretti continuamente a difendersi, a vivere costantemente sotto la minaccia dell’agguato. Mandela comprese allora che la via della liberazione dei neri passava per quella della liberazione dei bianchi, entrambi schiavi di un sistema che, in modi diversi, dispensava infelicità. In conclusione, dice Mandela, non si può essere liberi da soli; ecco quello che dovremmo comprendere bene anche noi oggi.

Tornando alla questione del diritto, recentemente l’intervento in mare dell’Italia ha costretto al rimpatrio “preventivo” un’imbarcazione carica di “immigrati potenziali”, proveniente dalla Libia. Il governo ha plaudito all’episodio in quanto attestazione dell’efficiente rispetto degli accordi intrapresi con la Libia sul piano del diritto internazionale. Insomma, dura lex, sed lex. Del resto, la legge – se è davvero uguale per tutti – va rispettata da tutti, senza distinzioni né discussioni: l’unica alternativa è la connivenza se non addirittura l’istigazione al reato. O ne esistono delle altre?
Dissento completamente. Intanto, poiché stiamo parlando di diritto internazionale, cominciamo a vederci chiaro: in primo luogo, la Libia è una dittatura bella e buona, che non ha neanche firmato la Convenzione sui Diritti Umani dell’ONU. In secondo luogo, si tratta di un paese xenofobo che tratta da “inferiori” gli stessi fratelli del continente africano (per averne un’idea, si può guardare il film Come un uomo sulla terra, di Riccardo Biadene, Andrea Segre e Dagmawi Yimer). Il fatto che l’accordo tra l’Italia e la Libia abbia ricevuto la tacita benedizione dell’Unione Europea, significa solo una cosa: che l’Europa va trasformandosi sempre più in una fortezza. Ad essa accadrà quello che è accaduto all’Impero Romano d’Occidente, roso e distrutto dall’interno. Ma, tornando sul piano del diritto, vorrei ribadire con forza che gli immigrati hanno il diritto sacrosanto di emigrare. Molti di essi, oltretutto, vanno considerati a pieno titolo “rifugiati politici”, il cui diritto all’asilo politico è previsto – come ho detto all’inizio – tanto dal diritto internazionale quanto dalla nostra Costituzione. Gli accordi presi con la Libia violano queste norme sull’asilo politico e vanno dunque considerati illegittimi ed incostituzionali. Per chiudere, vorrei citare uno studio su Lampedusa effettuato dal quotidiano “La Repubblica”, secondo il quale – dal 2002 al 2008 – sono morte nel Mediterraneo circa 40.000 persone. Si tratta di un genocidio di enormi proporzioni. È avvenuto in Europa.

(«l'Altrapagina», giugno 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano