Bellet fa piazza pulita di pregiudizi e stereotipi sulla vocazione, spesso alimentati da una certa religione (cristiana) del ‘dovere’: non c’è nessuna concorrenza tra Dio e l’uomo, la vocazione autentica è semplicemente l’occasione che all’uomo viene offerta di ‘far fruttare’ nella maniera più piena i propri ‘talenti’. La vocazione non è sacrificio della propria libertà, ma educazione, scoperta delle proprie possibilità: ciò implica che è impossibile prescindere dalla propria personale condizione di partenza, in termini materiali, morali, psicologici, spirituali. La vocazione non è qualcosa di ‘mistico’ che rapisce il soggetto conducendolo a una conversione che lo snatura: nessuna conversione fa sorgere il suo contenuto dal nulla, tutto ciò che il soggetto è, va assunto interamente nella propria vocazione. Altrimenti l’esito non è altro che ‘menzogna oggettiva’, fare ‘come se’ si fosse qualcosa che, in realtà, non si è affatto.
Il tema dell’assunzione della propria condizione è ricorrente in Bellet: nelle opere successive egli parla della ‘traversata’ come del cammino di colui il quale, di fronte alle proprie difficoltà e anche alle proprie angosce più profonde, è capace di portarne il peso, nonostante tutto, senza negarle, senza cercare ottuse soluzioni di forza (come quella dell’uomo ossessionato dal sesso che, nello sforzo strenuo di sfuggire alla tentazione, non fa che pensarvi) o cadere nella disperazione (ad esempio, nell’avvilente autocompiacimento della propria perdizione).
Anche se Bellet, sacerdote, filosofo e psicanalista, utilizza il linguaggio del cristianesimo, il suo non è un libro di teologia, né la sua trattazione può ritenersi ‘confessionale’. In primo luogo perché, come ha fatto rilevare altrove, è impossibile evitare del tutto il confronto con il cristianesimo: anche solo come idea, infatti, ‘Dio’ si trova nel passato di ogni uomo occidentale (e non solo) e tutti – che lo vogliano o no – devono farci i conti; così come nessun uomo adulto può mai affermare di essersi liberato dell’eredità della propria infanzia, altrettanto nessuno può dichiararsi estraneo al passato della propria cultura, della propria civiltà. In secondo luogo, Bellet usa il linguaggio del cristianesimo in maniera ‘critica’, attenta ai limiti (e agli abusi) di certe interpretazioni tradizionali, al fine di depurare le parole e i concetti dalle croste accumulate dal tempo e dalle stratificazioni dottrinali per recuperarne, infine, il senso autentico, originario, più vicino – e perciò anche più utile – all’uomo e alla realtà.
Il discorso di Bellet riguarda il rapporto tra la vocazione e la libertà, ovvero riguarda la condizione dell’uomo che si trova a decidere dell’uso da fare della propria libertà di fronte al dato di fatto del proprio essere così com’egli è, e non altrimenti, di non poter essere Napoleone, non perché sia ‘troppo per lui’, ma perché egli è un’altra persona, quell’unica ed insovrapponibile che egli è. Rapporto, quello tra la vocazione e la libertà, che sta a monte della saggezza: il segreto della saggezza è infatti l’accettazione della realtà, come nella storiella zen dell’allievo e del maestro (l’allievo si recò dal maestro per chiedergli: “maestro, vuoi rivelarmi il senso ultimo della realtà?” “Sì”, rispose il maestro, che poi rimase in silenzio. Al che l’allievo insisté: “maestro, mi avevi detto che me l’avresti rivelato”. Il maestro rispose: “l’ho già fatto”).
L’inizio della saggezza sta nell’accettare la realtà: saggio è colui che sa incamminarsi su questa strada. In questo senso, la vocazione è la richiesta che la realtà fa all’uomo di partecipare alle cose, prima e al di là di ogni ambizione a trasformarle; mentre la libertà è la capacità dell’uomo di ‘prendere atto’ o di rifiutare lo stato di cose, pretendendole diverse da quello che sono. Questo vale per ogni essere umano: per chi riflette sulla possibilità di diventare prete come per chi sta andando incontro al matrimonio, per chi medita se accettare un nuovo lavoro e per chi è appena stato licenziato.
La vocazione non è dunque qualcosa che ha per forza a che fare con il ‘religioso’; in termini weberiani, la vocazione è quella inclinazione personale che il soggetto sente più o meno di avere in se stesso, in base alla quale può decidere se scegliere o meno la politica o la scienza (ad esempio) come professione. Il termine ‘vocazione’ designa, in un uomo, l’incontro e la sintesi di un desiderio e di una capacità: “è volere e potere un modo di vita, una professione, un destino: ad esempio, la professione di medico o di musicista” (p. XXXIX). Ecco che il ruolo dell’uomo, del singolo uomo (non l’uomo ‘in sé’, che non esiste, ma l’uomo così com’è, calato nello specifico contesto in cui si trova) diventa centrale: la sua azione è a tal punto importante che – se le cose non vengono fatte bene – la vocazione può anche fallire, l’obiettivo essere mancato, la vita umana trasformarsi in insuccesso. Dio (per tornare a parlarne da un punto di vista cristiano), pur onnipotente, non si sostituisce all’uomo: in questo sta la sensatezza della vita umana. Non basta la buona volontà, la sincerità dell’intenzione o la cosiddetta ‘purezza di cuore’ affinché ogni cosa vada al suo posto:
se [è vero che] Dio ha il diritto di fare miracoli liberamente, [d’altro canto] non ci ha mai promesso di porre rimedio sistematicamente alla debolezza della nostra azione; sarebbe anche, da parte sua, renderci un pessimo servizio. C’è una logica della preghiera fatta bene come della tavola piallata bene (p. 198).Ciò coerentemente con la radicata convinzione di Bellet che tutto è rapporto di forze; non esiste una religione fatta di anime, preghiere e dottrine contrapposta a una prassi materiale e ‘mondana’: “non vi è nulla di interiore che non sia in qualche modo esteriore” (p. 55). Se l’uomo non riuscirà a trovare la sua propria unità, facendo in modo “che l’interno sia come l’esterno” (come recita il vangelo gnostico di Tommaso, § 27), è destinato a rimanere “disgregato, infelice” (p. 10n.).
(«ReF-recensionifilosofiche.it» online, ISSN 1826-4654, n° 39, maggio 2009)