Alba Porcheddu, docente universitario di pedagogia, guida da molti anni un gruppo di ricerca orientato all’indagine delle intersezioni fra il sapere pedagogico e quello sociologico. Questo libro è la trascrizione di una lunga intervista a Zygmunt Bauman, condotta in epoche e con mezzi diversi (tra cui la registrazione dal vivo e l’email), rivista dallo stesso Bauman, aperta da un’ampia introduzione che ne ricapitola i temi e i termini salienti.
Al centro della trattazione, ovviamente, la modernità liquida (distinta dalla modernità senza aggettivi, che va dalla rivoluzione galileiana fino alle soglie della contemporaneità), caratterizzata dal «disprezzo nei confronti della stabilità e della fissità» (p. 21). In particolare, lo studio mette a fuoco la domanda: “che ne è dell’educazione nell’epoca della modernità liquida?”, a partire dalla quale viene chiarito che il paradigma classico dell’educazione come “formazione”, cioè come assunzione di una forma stabile (che sancisce, come soglia di demarcazione, il passaggio dall’età infantile-adolescenziale a quella adulta), viene ribaltato dalla
contemporaneità, fino ad assumere il volto del lifelong learning, della cosiddetta “formazione permanente”.
Il punto di partenza è il consumismo odierno, la cui cifra non è affatto quella di possedere sempre più beni da accumulare, bensì quella di disfarsi velocemente di quelli posseduti (per far posto in tal modo a quelli nuovi). In queste condizioni, si domanda Bauman, poiché «la capacità di durare a lungo non è più una qualità a favore delle cose [...] per quale motivo, allora, il “bagaglio di conoscenze” costruito sui banchi di scuola, all’università, dovrebbe essere escluso da questa legge universale?» (p. 59). Ma questa non è l’unica sfida all’educazione; la natura del mondo contemporaneo, in evoluzione continua e sempre più accelerata, esige una formazione adeguata, cioè capace di evolversi allo stesso ritmo: un tempo, infatti, alla fine di un corso di studi universitari, il laureato possedeva un patrimonio di nozioni praticamente esaustivo per l’esercizio della professione, mentre oggi la conoscenza va rinnovata di continuo, senza sosta (basti, come semplice esempio, la constatazione che i modelli per la dichiarazione dei redditi vengono modificati tutti gli anni. Ma non è che una piccolissima parte dell’intero: si guardi in proposito la mole delle pubblicazioni circa le nuove norme – non solo tributarie e fiscali – di quotidiani come «Il sole 24 ore» o «Italia oggi», per non parlare delle varie pubblicazioni ufficiali dello Stato – Bollettino ufficiale delle regioni, Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana – e dell’Unione europea – come la Gazzetta ufficiale della Comunità europea). Bauman, citando Werner Jaeger, filologo e filosofo del secolo scorso che ha riflettuto a fondo sulle radici classiche dei concetti di pedagogia e di apprendimento, fa notare che la pedagogia moderna (prima che la modernità diventasse liquida) si fonda su due ipotesi fondamentali: l’ordine immutabile del mondo e l’eternità delle leggi che governano la natura umana:
la prima ipotesi giustificava la necessità e i vantaggi della trasmissione della conoscenza dagli insegnanti agli allievi. La seconda, permeava l’insegnante di sicurezza di sé, necessaria a scolpire la personalità degli allievi e, come lo scultore con il marmo, si presupponeva che il modello fosse sempre giusto, bello e buono, quindi virtuoso e nobile. Se le idee di Jaeger fossero corrette (e non sono state confutate), vorrebbe dire che la pedagogia, così come la intendiamo, si troverebbe nei guai, poiché oggi è necessario uno sforzo enorme per sostenere queste ipotesi e uno ancora più grande per riconoscerle come indiscutibili (pp. 60-61).Tuttavia, non è solo la pedagogia ad essere nei guai: non si tratta infatti di un problema disciplinare, ma di una caratteristica del mondo contemporaneo, che ha mutato il suo atteggiamento nei confronti delle cose. Secondo Bauman la prassi del mondo premoderno è individuabile nel simbolo del guardacaccia, la cui vocazione «si basa sull’idea che le cose sono perfette se non si interferisce con loro, che il mondo è una catena divina di esseri viventi in cui ad ogni creatura è stato assegnato un posto di diritto» (p. 34). Il suo ruolo è dunque “passivo”: l’ordine naturale va avanti da sé, basta rimuovere quei piccoli ostacoli (le “trappole dei bracconieri”) che ne intralciano un funzionamento altrimenti fluido. La prassi del mondo moderno è invece assimilabile a quella del giardiniere, il quale «parte dall’assunto che non ci sarebbe assolutamente ordine nella parte del mondo che gli è assegnata, se egli non vi prestasse costante attenzione e non vi dedicasse tutti i suoi sforzi» (ivi). Il giardiniere ha una certa sua idea mentale di come il giardino dovrebbe essere e la persegue «al fine di trasporre tale immagine nella realtà, in altre parole per trasformare la terra a immagine e somiglianza di tale idea mentale» (p. 35). Si può quindi dire che, se il verbo che meglio specifica la mentalità e l’opera del guardacaccia è “preservare”, quello che più si addice al giardiniere è “trasformare”.
Nella modernità liquida, però, entrambe queste figure cedono il passo a quella del cacciatore, il cui fine esclusivo è «riempire il più possibile il proprio carniere» (ivi). Il cacciatore, il cui compito non è tenere in piedi un equilibrio esistente, né istituirne uno ex novo, si occupa soltanto di depredare una zona fino all’osso; per poi spostarsi verso una zona nuova (un nuovo “mercato”). Il disordine che ne consegue prende il nome di “deregolamentazione” (p. 37). Il verbo tipico del cacciatore è “conquistare”. Bauman non trascura di affrontare le ricadute sociali e individuali di un tale mutamento di paradigma (ovvero, di una tale inversione: cacciatore e guardacaccia sono infatti agli antipodi).
Nell’epoca dell’individualismo l’assenza di maestri affidabili (come di insegnamenti duraturi) e l’esigenza di inseguire il “nuovo”, costringono il singolo a compiere scelte a ogni piè sospinto, circa le cui conseguenze egli non è in grado di fare valutazioni adeguate ma di cui, tuttavia, è costretto ad assumersi in prima persona la responsabilità e a pagarne il prezzo (p. 33; il tema è stato ampiamente approfondito dall’autore nel libro La libertà, già recensito per «Filosofia.it», marzo 2009). Se la “modernità liquida” è affine alla “mobilitazione generale” (non a caso, “mobilità” è una parola chiave dei nostri giorni), l’obiettivo dell’educazione non può più essere quello dell’assunzione di una forma fissata, adatta al proprio sé, ma sarà quello di divenire in grado di girare alla stessa velocità della giostra dell’economia (ovvero, di cambiare rapidamente direzione e velocità di pari passo con quelle della giostra; chi non si adegua, viene sbalzato fuori). Lo scopo dell’educazione non sarà più quello di fornire agli uomini i necessari strumenti per affrontare l’esistenza e men che meno per domandarsi il senso dell’esistenza stessa: lo scopo dell’educazione sarà quello di preparare lavoratori a quelle mansioni che il mercato richiederà loro di svolgere in futuro (p. 86). Ecco che l’espressione “educazione permanente” si tramuta da ossimoro in pleonasmo (p. 76). Suggestivamente vicino ai Pink Floyd di The Wall, che nel 1979 hanno utilizzato per la vita moderna la metafora del ghiaccio sottile – the thin ice of modern life, Bauman ricorda che quando si pattina sul ghiaccio sottile, la salvezza è nella velocità. You better run like hell.
("Filosofia.it", maggio 2009)