giovedì 16 aprile 2009
R. Panikkar, Opera Omnia, vol. I, tomo 1, ed. Jaca Book, 2008
Si è svolta a Venezia, dal 5 al 7 maggio 2008, una conferenza internazionale in omaggio ai novant’anni di Raimon Panikkar. In quella cornice Milena Carrara (che in questi ultimi anni ha tradotto e curato quasi tutti i libri di Panikkar usciti in Italia) e Sante Bagnoli, presidente editoriale della Jaca Book, hanno presentato il primo volume dell’Opera Omnia di Panikkar in italiano, dal titolo: Mistica pienezza di vita. (Nel frattempo è già uscito il secondo, a tempo di record, alla fine del 2008).
Il piano dell’opera, visibile sul sito internet della casa editrice, è stato predisposto dallo stesso Panikkar: essa non procede secondo un rigoroso ordine cronologico, né è esaustiva; è invece una selezione che attinge qua e là, al vecchio e al nuovo (che Panikkar, citando il Vangelo, ama richiamare), che dà conto del suo pensiero così com’è oggi, più che del percorso lungo il quale tale pensiero si è formato (ciò che si è cercato in qualche modo di preservare lasciando intatte tutte le introduzioni a ciascuno scritto che si sono susseguite nel corso delle varie ripubblicazioni, secondo il costume dell’autore).
L’opera, in dodici volumi, di cui il primo e l’ottavo in due tomi, vede una preponderante presenza del tema religioso e interculturale, un solo volume è dedicato alla filosofia. Così come uno solo è dedicato alla scienza, il che può sembrare poco, soprattutto se si pensa alla formazione di Panikkar (laureato in chimica, e per ben due volte, come racconta Paulo Barone nel suo recente Spensierarsi) e alla sua incessante critica alla scienza e alla tecnologia. Ma, d’altro canto, non va dimenticato che per Panikkar sono le religioni ad essere “il locus della verità ultima” e non le filosofie né le scienze (ammettendo per un attimo che una distinzione così rigida sia davvero possibile).
Il primo volume (primo tomo) è dedicato, si diceva, alla mistica. Panikkar intende la mistica non come un’esperienza riservata a poche eccelse anime ipersensibili, ma come quella dimensione antropologica nella quale l’uomo – ogni uomo – scopre di essere più della pura ragione. Tema che nel libro viene trattato in tre parti: la prima si concentra sulla nuova innocenza, la seconda sulla meditazione e la terza sull’esperienza mistica.
‘Nuova innocenza’ è il termine con il quale Panikkar allude a un livello di coscienza caratterizzato dalla naturalezza, in cui la conoscenza non ostacola l’azione e quest’ultima può essere compiuta senza premeditazione né calcolo (un po’ come accade alla guida di un’automobile, o quando si nuota: voler riflettere su ogni singolo movimento da compiere, non porterebbe che all’immobilità). In questa sua immediatezza, la nuova innocenza è priva di secondi fini; Panikkar la caratterizza come “quell’atteggiamento umano che non si aspetta ricompensa. […] Questo è ciò che tanti mistici dicono quando ci parlano di agire senza perché, di vivere il presente. Non si tratta di rinunciare alla ricompensa. […] Si tratta di non sentirne la necessità” (p. 34). La sua spontaneità è la sua libertà. È la saggezza del comprendere che la fiducia viene prima della conoscenza e ne è il fondamento, perché noi veniamo a un mondo che, prima di noi, già è e ci accoglie. È la liberazione dall’ansia di dover tutto controllare, madre dell’angoscia; perché, come dice il filosofo francese Maurice Bellet, “il fondo dell’angoscia consiste nel non potersi fidare, dove invece l’uomo deve necessariamente aver fiducia. Per questo l’ansioso è, senza saperlo, il critico assoluto dello scettico. Egli testimonia che lo scettico si fida. Altrimenti, cadrebbe nel vuoto. [...] Egli rende palese un po’ crudamente ciò che accadrebbe, se tutte queste belle riflessioni divenissero reali” (Il corpo alla prova o Della divina tenerezza, servitium, Gorle (BG) 20002, p. 72).
Da un certo punto di vista, tuttavia, la parte più importante dell’opera è proprio la terza, in quanto permette di cogliere un aspetto fondamentale e irrinunciabile del pensiero di Panikkar: che la verità non è né teoretica né poietica, bensì ‘pratica’ (Panikkar utilizza i termini ‘poiesi’ e ‘prassi’ in senso aristotelico). L’uomo non è una macchina per ‘credere le cose giuste’ (come vorrebbe una certa ortodossia) né per ‘comportarsi bene’ (come vorrebbe invece una certa morale); la verità non è né nel pensare né nel fare, ma nell’essere, e solo nell’essere. Ora, per Panikkar, se il fondamento del nostro essere non è nutrito dalla nostra personale esperienza, allora tutto ciò che noi siamo “non è farina del nostro sacco” e può venirci meno da un momento all’altro. Ciò vale tanto più per la mistica: se non sperimentiamo personalmente il legame con il cosmo e il volto di Dio in quello del fratello, allora tutto rimane teoria, discorso, astrazione. Ma la verità è nell’incontro e, fuori dall’incontro, non vi è verità. Questo ricorda Panikkar alla nostra epoca, che tutto affida agli strumenti e tutto delega agli esperti: che ciascuno di noi è protagonista della propria vita ed è partecipe della comune avventura umana dell’aver cura della realtà intera. E che il bello della vita non sta nel suo ‘scopo’, né in ciò che si può ‘produrre’ nell’arco della propria esistenza, bensì nel viverla, nel gustarla, nel gioirne giorno dopo giorno.
(«ReF-recensionifilosofiche.it» online, ISSN 1826-4654, n° 38, aprile 2009)
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