giovedì 16 aprile 2009

L’altro non esiste 13-14/9/2008

(CON MIMMA PELUSO)

Si è svolto a Città di Castello, il 13 e 14 settembre scorsi, il XXII convegno annuale di studi dell’«altrapagina» dal titolo “Convivialità delle differenze”. Ma dire che si è parlato della differenza sarebbe riduttivo: a Città di Castello sono state le differenze stesse a parlare, nella presenza e nella cifra personale degli oratori, prima ancora che nel contenuto delle relazioni: così Majid Rahnema, iraniano musulmano che ha parlato in francese della povertà, o Jean Léonard Touadi, congolese cristiano, che ha parlato – da africano e al contempo da deputato della Repubblica Italiana – dell’immigrazione africana in Occidente; così ancora Moni Ovadia, ebreo italiano, “ateo che ama trafficare con la spiritualità” (come si è definito), protagonista di un vero e proprio spettacolo teatrale a cavallo tra la facezia, l’esegesi erudita e la ricostruzione storica. L’incontro con l’“altro”, l’esperienza
della differenza, inizia dunque dal solo essere nel teatro, in loro compagnia, anche in perfetto silenzio.
E in effetti silenzio c’è stato, per pochi attimi, totale, assoluto. Quando Ovadia ha raccontato l’aneddoto dell’incontro tra il regista ebreo tedesco Fritz Lang e Joseph Goebbels, ministro della propaganda nazista (alla sorpresa di Lang, che fece notare al ministro le sue origini ebraiche, Goebbels rispose: «Non sia ingenuo signor Lang. Qui chi è ebreo e chi no lo decidiamo noi»); e quando Touadi ha spiegato che intere famiglie africane riuniscono le loro forze per finanziare l’emigrante nel suo tentativo di raggiungere l’Europa, dalla quale potrà poi spedire abbastanza denaro per il sostentamento di tutti (per cui il disappunto di chi è fermo a Lampedusa è: “Non ce l’ho fatta. E adesso cosa racconterò loro, che riponevano in me ogni speranza?”)
Sensazioni forti, anche nell’allegria: si ride quando Rahnema, al termine della sua non breve relazione intrisa di elementi di esperienza personale, ascoltata in traduzione simultanea, conclude dicendo: «Scusatemi per questo lungo intervento: sono solo un vecchio chiacchierone ottantaquattrenne». E ancor più si ride quando Ovadia racconta la storiella ebraica del matrimonio (alla madre non piace l’uomo che la figlia ha deciso di sposare, e la figlia le ribatte: “Quando ti sei sposata tu, hai scelto di testa tua”. Al che la madre replica: “È vero, ma io ho sposato tuo padre; tu vuoi portarmi a casa un estraneo!”). Qui non si ride più di sola simpatia, si ride perché infine la maschera è stata gettata: e tutti possono vedere che l’“altro” non esiste, che siamo noi a decidere chi è dentro e chi è fuori, chi è amico e chi è nemico, chi è con la NATO e chi è “canaglia”. Non c’è nessuno scontro tra civiltà, tanto meno tra civiltà – come quella cristiana e quella musulmana – che hanno convissuto nel Mediterraneo per quattordici secoli, fiorendo entrambe ed insieme: ci sono solo governanti facinorosi (con tutto lo stuolo di propagandisti al loro seguito), che conoscono bene l’arte di strumentalizzare le debolezze dei popoli per fomentare le guerre. Non c’è nessun “infame” da “schiacciare”, per dirla con Voltaire: il fanatismo dell’islam fondamentalista ritrova nella ragione occidentale armata (Panikkar) del Washington consensus (Chomsky) l’altra faccia della stessa medaglia.
Ma il convegno ha anche una seconda parola-chiave: “convivialità”, esplicito richiamo all’omonima opera di Ivan Illich, non a caso tra i pensatori più citati di quest’incontro. Il tema però non è stato trattato in modo specialistico da “scuola di pensiero”; di convivialità si è parlato soprattutto come si parla del buon senso, dell’ovvio, di ciò che ci si sorprende non sia già in un certo modo: il buon senso di ritenere che l’altro vada accolto invece che scacciato, che siamo tutti uomini appartenenti all’unica e medesima razza, quella umana, che l’altro è simile a noi, pur nella diversità, perché è molto di più ciò che ci accomuna che ciò che ci distanzia, che sia incredibile e scandaloso che l’informazione venga monopolizzata dal potere d’acquisto dell’euro quando quasi metà dell’umanità vive con meno di due dollari al giorno. E infatti gli oratori sono apparsi straniti, ad esempio, dal fatto che l’Occidente, di punto in bianco, voglia evitare ogni contaminazione culturale con l’islam musulmano, quando i nostri stessi numeri, sì, proprio quelli “arabi”, su cui abbiamo basato la scienza moderna, li dobbiamo a loro (Ovadia). Abbiamo paura dell’immigrato e vogliamo cacciarlo via: ora è il turno dei rumeni, tutti ladri, tutti cattivi. Eppure non esitiamo ad affidare alle cure delle badanti e delle baby-sitter rumene i nostri anziani, i nostri piccoli: in una parola, ciò che abbiamo di più caro. Si tratta di una schizofrenia tipicamente occidentale (Touadi) che rivela il carattere illusorio, fittizio, di ogni ripartizione in bianco e nero, di ogni astratta generalizzazione.
Ancora Ovadia si mostra stranito dal fatto che questo fenomeno capiti proprio a un paese come l’Italia, che nel secolo scorso ha conosciuto l’emigrazione massiccia, in termini di milioni di persone, verso gli Stati Uniti, la Germania; un popolo che conosce di prima mano quanto sia sbagliato (non in senso morale, bensì epistemologico, cioè di fatto) ritenere che tutti gli italiani siano mafiosi.
Impressioni a cui il pubblico si è subito associato, come testimonia la valanga di domande poste agli oratori: alcune più tecniche, altre ai limiti dello sfogo personale, molte – soprattutto da parte di convenuti anziani, quelli che non dimenticano, i “grandi saggi”, come ama definirli Achille Rossi – talmente in sintonia con la relazione da diffondere ancora di più lo smarrimento, di fronte all’avanzare tanto facile di una superficialità per la quale – bava alla bocca – ogni minima questione diventa una “emergenza sociale”, ogni violenza un “atto di terrorismo”, ogni deviazione un “problema di sicurezza”. Perché si sa, chi dimentica la propria storia è condannato a riviverla.

(«l’Altrapagina», ottobre 2008, pp. 30-31)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano