Misticism begins with mist and ends with scism (1)
Che l’enigmistica, con il suo raffinato tecnicismo per addetti ai lavori (verrebbe quasi da dire “per iniziati”) potesse incontrare la filosofia vis à vis, nel cuore della speculazione occidentale, (2) era un po’ difficile da immaginare (ma non impossibile da sperare, come ha mostrato l’incontro del 2006 a Modena).
Tuttavia, esse non sono mai state reciprocamente estranee: come illustra il gustoso racconto di quel discepolo che si recò dal saggio giapponese Joshu per domandargli: “Maestro, il cane ha natura-buddha, o no?”, al quale Joshu rispose con l’enigmatico “Mu!”. (3) È tuttavia a cavallo tra i secoli XIX e XX che, sul terreno comune del linguaggio, filosofia ed enigmistica gettano (certo inconsapevolmente) le basi dell’incontro.
È forse un auspicio che il maggior filosofo
di quel periodo (che è anche di poeti come Rilke e Valery, cui la tradizione filosofica si rifarà ampiamente) sia stato Nietzsche, nato come filologo. In quel frangente l’enigmistica comincia ad autodefinirsi e a prendere alcune delle caratteristiche che la condurranno alla forma attuale; la filosofia punta i riflettori sul linguaggio, dando vita alla speculazione di Heidegger, all’analisi di Wittgenstein – da cui prenderà le mosse un’intera branca della filosofia successiva, oggi denominata “analitica” o anglosassone – all’ermeneutica, fino ad eccessi come quello di un filosofo che farà “l’analisi logica” del testo di un collega, definendolo incomprensibile. (4)
Ma per la filosofia non si tratta solo di ridare importanza alla forma dell’esprimersi, oltre che al contenuto (va infatti ricordato che il problema del linguaggio, che risale almeno ai sofisti e a Platone, non è mai stato assente dalla filosofia). Per Wittgenstein, noto anche ai non specialisti per la celebre chiusa del Tractatus: «Di ciò di cui non è possibile parlare, bisogna tacere», non esistono genuini problemi filosofici, ma solo perplessità linguistiche; il lavoro della filosofia non è dunque altro che un incessante tentativo di rendere univoco il linguaggio.
Parallelamente (anche se a considerevole distanza, dal punto di vista intellettuale) Heidegger sostiene che il linguaggio è la casa dell’essere; la ricerca del filosofo tedesco si fonda sull’analisi etimologica dei termini usati dalla filosofia e dal linguaggio comune, passando per quello dei greci e dei poeti. Egli conia continuamente neologismi (con grave imbarazzo dei tedeschi contemporanei, ma soprattutto dei traduttori) e spesso afferma di non disporre di un linguaggio adatto ad esprimere le sue intuizioni. Ma, ciò che è più rilevante ai fini di questo discorso, introduce l’uso di segni grafici nel testo (fatto insolito per la tradizione): come nel caso del celebre “Sein”, o dei trattini all’interno delle parole, allo scopo di metterne in evidenza la parentela etimologica. Comincia qui una manipolazione della lingua da parte del pensiero filosofico (e non solo) che penetra all’interno della struttura della parola, e che arriverà fino ai giorni nostri.
Nello stesso periodo Paul Valéry, recuperando la tradizione scolastica medievale per la quale non vi è conoscenza senza amore, scrive: “Connaitre est con-naitre, est naitre ensemble” (“conoscere è nascere-con, è nascere insieme”). Anche qui la speculazione non si avvale più soltanto di definizioni, termini e concetti, ma entra nella parola deformandola e riformandone il senso.
È però solo negli ultimi decenni che la riflessione occidentale scopre il fascino e la forza di questa manipolazione, dal semplice gioco di parole allo slogan, fino ad alcuni veri e propri “giochi enigmistici” (come quelli che vedremo fra poco). All’austera filosofia non manca il gusto del gioco di parole inteso come puro divertissement: Jordi Savall, musicista francese che nel 2000 ha intervistato il filosofo catalano Panikkar, sul tema “musica e spiritualità”, ha intitolato l’intervista: “Deux personnages en quête de hauteur” (“Due personaggi in cerca d’alture”), che gioca sull’affinità tra la parola “auteur” (“autore”, che richiama il titolo della celebre opera pirandelliana) e “hauteur” (“altezza”, intesa in senso spirituale, come l’andare oltre la dimensione meramente mondana attraverso la musica). In modo diverso, ma sulla stessa lunghezza d’onda, il filosofo tedesco Troeltsch – criticando un certo tipo di teologia dogmatica, che a suo avviso presuppone ciò che dovrebbe dimostrare – ha scritto che in questo tipo di teologia si viene rimandati “da Ponzio a Pilato”.
Nel corso di un convegno di filosofia sul tema della pace, parlando dell'attuale sistema economico, l'oratore fece notare che gli americani, sfruttando l’ambiguità della pronuncia, storpiano il loro “justice” (“giustizia”) in “just-us” (“solo noi”), per porre in risalto in fatto che in economia non conta nient’altro che il profitto personale e del proprio gruppo (“just U.S.”, “solo gli Stati Uniti”). In questo caso si tratta di un’ironia che non è fine a se stessa, ma è al contrario parte integrante della riflessione.
Con un pizzico di profondità in più, e molta sottigliezza, una certa filosofia – che ritiene non esistano fatti oggettivi indipendenti dall'interpretazione del soggetto – ama ripetere: “Truth lies in the interpretation” (“La verità giace nell’interpretazione”). L’espressione si basa sul bisenso costituito dal verbo inglese to lie: esso significa sia “giacere”, sia “mentire”. Dunque la verità si rivela nell’interpretazione, ma, al contempo, vi si cela. Questo esempio mostra che spesso il gioco di parole si rivela prezioso sia per la potenza della sintesi, sia per la facilità con il quale resta impresso (e, con esso, il contenuto intellettuale che si intende trasmettere).
A Raimon Panikkar, filosofo contemporaneo vivente, dobbiamo alcune vere e proprie perle enigmistiche. Sempre alla ricerca di termini nuovi e significativi per illustrare le sue intuizioni originali, non perde occasione di smontare e ricomporre le parole a vantaggio del significato. Nel 1970 ha riassunto l’intuizione della contingenza dell’uomo, nella quale l’ego scopre di essere il “tu” di un “io” più profondo, con l’espressione “yo soy tu-yo” (“io sono tuo”; dove “tuo” – “tuyo”, in spagnolo – è reso con un trattino che evidenzia la contingenza descritta). Una sciarada a tutti gli effetti. Panikkar è anche autore di due neologismi: “tempiternità” (che sintetizza i concetti di tempo ed eternità, da cui proviene), interessante anche se fuori dagli schemi enigmistici classici, ed il cambio di vocale “dualogo” (con il quale ha inteso sottolineare la reciprocità e la pariteticità di ogni genuino “dialogo”). Per lui Cartesio è “il signore delle carte” (“il signor des Cartes”), ed ogni occasione è buona per richiamare un gioco di parole altrui, se non per farne uno proprio: così ricorda che per i medievali pensare vuol dire mettere le cose in connessione (cogitare est co-agitare).
Infine, è Adolfo Perez D’Esquivel a regalarci l’ultimo pregevole “scarto di consonante”. Riferendosi al debito estero dei paesi poveri, soprattutto alla loro impossibilità di estinguerlo a causa degli interessi maturati (nonostante la maggior parte di essi abbia già versato ai paesi ricchi una somma quadrupla rispetto al capitale ricevuto), il premio Nobel per la pace si espresse così: “Deuta externa, deuta eterna” (“Debito estero, debito eterno”). Ricordandoci che nessun gioco è mai soltanto per scherzo.
(1) “Misticismo inizia con nebbia – “mist” – e finisce con scisma”. Sarcasmo con il quale alcuni teologi inglesi hanno espresso la loro condanna nei confronti di un certo modo fumoso ed eccessivamente “spirituale” (nel senso di assurdamente disincarnato) di intendere la mistica.
(2) Cui d’ora in poi mi riferirò con il termine “filosofia”, pur non restringendolo all’ambito del lavoro dei cosiddetti “filosofi di professione”. Questa nota di precisazione mi valga come scusa verso tutta la filosofia “non occidentale”.
(3) In giapponese la sillaba “mu” significa “no”, ma è anche uno dei modi per esprimere la natura-buddha.
(4) Si tratta di Carnap e di Heidegger. L’episodio testimonia dell'importanza che l'epoca attribuisce al linguaggio.
(«La Sibilla», anno XXXIII, n° 6, Napoli 2007, pp. 284-286)