giovedì 16 aprile 2009
Invito al pensiero di Maurice Bellet/5. I due cristianesimi
Nella Lunga veglia Bellet dice di aver conosciuto due religioni: una religione della paura e della tristezza e una religione dell'amore e della gioia. Esse però, dice Bellet, non sono che una sola religione: il cristianesimo.
Esistono dunque almeno due modi di intendere il cristianesimo. Per il primo, la realtà del cristianesimo sta negli elementi della religione, quelli del catechismo di un tempo: verità da credersi, doveri da praticare, mezzi per santificarsi; il tutto nella Chiesa e sotto la sua autorità. Il cristianesimo, come realtà, è questo; se gli si tolgono i dogmi e la dottrina, la morale e i percorsi tradizionali di perfezione, la preghiera e i sacramenti, allora il cristianesimo diventa qualunque cosa. Se si toglie la Chiesa, la fede si scompone nelle opinioni e perde la realtà della comunione, essenziale al Vangelo di Gesù Cristo.
L’altro cristianesimo inizia in modo totalmente diverso. Per esso, il reale del Vangelo è ciò che il Vangelo chiama agápe, tradotto in genere con amore o carità. Quest’amore non è un’idea, una legge, un ideale, un impeto del cuore: è la nuova umanità che inizia in Gesù Cristo e bisogna far crescere fino alla sua pienezza. Questo riassume e contiene tutto. Come dice Giovanni, Dio stesso è agápe.
Tralasciamo in questa sede l'analisi dei meccanismi che hanno condotto, a partire dall'unica sorgente evangelica, alla formazione di queste due correnti tanto diverse. Quello che si vuole invece osservare è che non si tratta semplicemente della contrapposizione tra due diverse dottrine sul piano teoretico, bensì dello spostamento del “luogo della lotta”, come Bellet lo chiama, dai princìpi alla realtà: «Il momento di verità è quando si tratta di fare le cose. Pregare o non pregare. Ascoltare o far tacere. Andarci o restare a casa. Avere del tempo per questa cosa o essere occupati altrove. Offrire il proprio danaro o non darlo» (p. 332). Così, l’effettivo di ciò che si può chiamare cristianesimo è questo amore in atto, che passa ad esempio attraverso la lotta effettiva per la trasformazione delle condizioni di vita e di lavoro delle masse sfruttate, per la libertà dell’uomo, per il suo diritto a vivere la propria vita. «“Effettivo” significa: sul campo, secondo le condizioni di fatto, con mezzi che trasformano realmente» (333).
In ultima istanza, non si tratta di riconoscere pregi e difetti delle rispettive posizioni, ma di stabilire ciò che c’è al principio di tutto: il bisogno dell’altro che ci si presenta e ci chiama, al di là di ciò che pensiamo, crediamo, speriamo, desideriamo. Cade così per entrambe la stessa pretesa: quella di sapere a priori ciò che è utile o necessario agli uomini (da un lato, secondo l’idea più diffusa delle sue necessità; dall’altro, secondo l’idea che ci si fa delle cose della religione). Contro ogni tentativo, soprattutto se in buona fede, di irregimentare l’umano: affinché non l’uomo sia per la religione, ma la religione per l’uomo.
(«L’Altrapagina», ottobre 2008, p. 37)
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