giovedì 16 aprile 2009

Invito al pensiero di Maurice Bellet/4. La Via


Qui non ci sono sentieri, poiché non c’è più legge per il giusto.
R. PANIKKAR, Beata semplicità


È forse il compito più difficile, per un lettore di Bellet, quello di parlare della Via. Lui per primo ne parla utilizzando un linguaggio metaforico, poetico, icastico, a volte apparentemente contraddittorio: la Via è indispensabile all’uomo, come l’aria e il cibo, ma non può essere afferrata né pensata, perché precede ogni nostra comprensione e categorizzazione; essa è sempre la cosa più urgente, ma non può essere cercata; è presente in tutto, ma non è la contingenza, né è altrove. È solitudine, ma non è affare del “solo”, dell’individuo isolato. La Via non ha via.
Il modo più semplice per avvicinarsi a questa sfuggevole nozione è forse dire che “la Via” è uno dei nomi della divinità. È in ognuno il proprio singolare, eccezionale destino, la necessità di trovare un proprio compimento che non si esaurisca nel qui ed ora perché aspira sempre all’“oltre”, senza che a questo oltre si debba per forza dare il nome di “Dio”: «Lasceremo chi nomina Dio nominarlo, lasceremo chi non lo nomina non nominare Dio» (p. 13). La Via non inizia con dei paletti, ma con la libertà.
Del resto Bellet associa alla Via lo stesso termine che ha usato altrove proprio per la divinità: la tenerezza (cfr. Invito al pensiero di Bellet/2 – giugno 2008). Termine che Bellet tiene a distinguere sia dall’“amore” sia dalla “carità”, più generici e abusati, soprattutto nelle accezioni più melense e buoniste: «“Amore” non è un suo sinonimo. Perché, quando occorre, la tenerezza sa essere collera, fredda ragione, opera tecnica e calcolata. La tenerezza è del tutto intollerante verso la stupidità, la crudeltà e la perfidia. Non si lega con ciò che è basso e menzognero. Trae ogni cosa dall’ombra, senza pietà. Essa va e tronca» (pp. 45-46). La tenerezza non si fa illusioni perché conosce ciò che abita l’uomo; essa non è essenzialmente né l’utensile né il concetto bensì, in quanto posto vivo accordato ad ogni essere a misura della sua crescita, è il modo giusto in cui l’utensile e il concetto possono essere adoperati. È senza legge perché è essa stessa legge; e non ha a che fare con l’etica, perché la sua natura non è il “si deve”, ma che ogni essere umano sia chi egli è.
Senza Dio, dunque (inteso come quell’insieme di immagini mentali che è possibile racchiudere all’interno di una determinata dottrina) e senza legge (intesa come norma che è possibile stabilire a priori e alla quale l’umanità dell’uomo deve conformarsi): chi ci indicherà dunque la Via? Chi ci farà da Maestro?
Su questo strappo Bellet non tenta ricuciture di comodo; egli lo compie anzi fino in fondo, perché il passaggio alla verità è lacerazione completa, come quella del parto, la quale soltanto può dare nuova vita. Perciò, è reciso al riguardo: non ci sono maestri, perché la Via non si insegna. Come potrebbe essere, dal momento che essa precede, è a monte di tutto? Come potrebbe un maestro tenersi a sua volta a monte di ciò che tutto precede? Ma poiché nessuno può fare a meno di entrare nella Via, ciascuno deve adattarsi ad essere discepolo... senza maestro: «Il discepolo senza maestro ha il dovere di essere attento a tutto, di avere l’orecchio sempre vivo, lo sguardo accogliente, la memoria viva. Ogni cosa lo ammaestra – una parola detta, un’idea che passa, un umore del corpo, un paesaggio, una città, un mercato e, al di sopra di ogni cosa, tutti gli umani, uomini e donne, che gli è dato di conoscere. Trova perfino la sua pastura nei libri – qualche volta!» (p. 115). E la prima grande maestra è proprio la vita dell’uomo, l’esperienza della fame, del dolore, della malattia, dell’oppressione, della disperazione; non il sapere, dunque, né il dovere. Né si tratta di dubitare di tutto, per principio, per partito preso; ma, al contrario, di accogliere tutto, di sapere aprire se stessi alla verità tutta intera.
Senza dottrina e senza morale, la Via non si schiera nei litigi, e può anche fare a meno di nominare Dio: la sua fede è l’agire della tenerezza, il suo sacrificio è la traversata delle angosce, il suo popolo santo è l’umanità. La dimora della Via è il mondo, e la sua opera è la fine del caos nel quale il furore e la distruzione prendono il sopravvento. Essa è ristabilimento dei limiti, non nel senso della mortificazione, ma nel senso di ciò che permette agli esseri di acquisire e mantenere la loro giusta dimensione reciproca (ad esempio, è nel rispetto della libertà altrui che si può essere davvero tutti liberi).
Questa è dunque l’unica legge della Via: di essere per il bene dell’uomo. Sotto ogni altro rispetto, essa è senza legge. Perché tutto è via per chi è nella Via: mangiare e digiunare, parlare e tacere, agire e riposarsi. «Che cosa, senza legge? Senz’altra legge che la Via di tenerezza» (p. 211).

(«L’Altrapagina», dicembre 2008, p. 40)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano