giovedì 16 aprile 2009
I. Illich ed al., Esperti di troppo, ed. Erickson, 2008
Esperti di troppo è la nuova traduzione di Disabling professions (già apparso in italiano nel 1978, con il titolo Le professioni mutilanti, per i tipi della Cittadella editrice di Assisi). Terzo capitolo della trilogia che comprende i più celebri Descolarizzare la società e Nemesi medica, è un testo scritto da Ivan Illich e da quattro suoi allievi sul tema della “disabilitazione”, cioè di quel fenomeno per cui – in seguito all’emergere di alcune caste professionali, che sovente fondano un proprio monopolio a partire da un lessico e da un insieme di procedure tecniche altamente specializzate ed incomprensibili alla gente comune (p. 93) – i cittadini vengono espropriati non solo della possibilità di agire per il proprio bene, ma addirittura della stessa capacità di decidere che cosa è bene per loro. Esempio paradigmatico è quello della salute, dove curarsi diventa un dovere (e non più qualcosa che si può scegliere) e l’unica strada per farlo bene è quella indicata dai protocolli medici. La casta medica, in questo esempio, detiene dunque il potere di decidere sia cosa è “malattia”, sia come tale malattia vada curata. Anche quando al cittadino la cura non viene imposta per legge, ciò non di meno chi non si allinea alla mentalità comune è un pazzo, un masochista, un incosciente.
In ciò sta il grande potere acquisito – sempre per rimanere nell’ambito dell’esempio medico, ma il discorso è valido in generale e per tutte le professioni prese in esame dal libro: avvocati, manager, assistenti sociali – dalla medicina moderna: quella di aver persuaso il singolo uomo che c’è qualcuno che ne sa più, su se stesso, di quanto egli stesso ne sappia (su questo tema è illuminante il saggio di I. K. ZOLA, pp. 51-72). Potere che si manifesta nella convinzione che una cosa sia vera perché “l’ha detto la televisione!” o nell’atteggiamento di coloro che affidano la cura e il destino del loro rapporto di coppia o dell’educazione dei figli ai “professionisti del settore”. In una deresponsabilizzazione generalizzata che spinge il singolo ad estraniarsi dallo stesso compito di prendersi cura di se stesso, meravigliosamente espressa da una battuta della serie televisiva Sex and the city: “Sei appena stata dallo psicologo? Figurati, io ne ho tre: uno a cui chiedere dei consigli, uno per quando voglio essere coccolato e il terzo per quando ho proprio bisogno di una bella sferzata!”
I saggi di Zola, McKnight, Caplan e Shaiken vengono introdotti da quello, di più ampio respiro, di Ivan Illich, che apre con un incipit di deciso effetto: «Un modo per chiudere un’epoca è quello di attribuirle un nome che rimanga impresso. Propongo di chiamare la seconda metà del Ventesimo secolo l’“Era delle Professioni Disabilitanti”: un’epoca nella quale le persone avevano dei “problemi”, gli esperti possedevano delle “soluzioni”, e gli scienziati misuravano realtà sfuggenti quali le “abilità” e i “bisogni”. Quest’era volge ora al termine» (p. 27). Illich descrive in poche parole l’immenso potere di quell’“oligopolio radicato più profondamente di una burocrazia bizantina” (p. 30): gli esperti decidono cosa sarà fatto (i “servizi” che dispenseranno) e chi dovrà giovarne (i “clienti”); rivendicano l’autorità di decidere come le cosa vanno fatte, ma soprattutto decidono quali sono i motivi che rendono obbligatori i loro servizi: molte professioni sono ora così altamente sviluppate che esse non soltanto esercitano la tutela sui “cittadini-divenuti-clienti”, ma determinano anche la forma di questo loro “mondo-messo-sotto-tutela”» (p. 31). Il problema non è quindi nel rapporto del singolo professionista che “imputa un bisogno” a un singolo cliente: qui si è di fronte ad un organismo corporativo che può imputare bisogni a un’intera collettività: è la forma di questo mondo sotto tutela che può essere plasmata dagli specialisti così come può e deve essere.
Di conseguenza, l’accettazione di questo stato di fatto diventa un evento politico: se l’alcolismo non è più considerato un reato, bensì una malattia, gli arresti diminuiranno drasticamente, mentre aumenterà in misura corrispondente il trasferimento coatto dei malati colti in “flagrante patologia” verso strutture mediche (pp. 63-64). Con questo meccanismo si realizza l’espropriazione sopra denunciata, in cui una parte del potere politico decisionale dei cittadini passa nelle mani delle elite specializzate, che acquisiscono il potere di influenzare norme collettive. Illich sintetizza questo problema dicendo che «un’amministrazione guidata da un parlamento che basa le sue decisioni sulle opinioni esperte formulate dalle professioni potrebbe essere un governo “per” il popolo, ma mai “del” popolo» (p. 34). In questo modo le corporazioni professionali ribaltano la storica regola secondo la quale l’opinione, il “sentito dire”, cedono il passo all’evidenza: nel mondo concepito dalle professioni, l’opinione degli specialisti conta più dell’evidenza personale di chiunque – singolo o gruppo – voglia pensarla diversamente. Ecco che, come si diceva prima, il mondo prende forma in un ordine nuovo, progettato ed eseguito dalle professioni, al di sopra di ogni parere contrastante e di ogni umano volere, nel quale non c’è più posto né per la diversità né per la spontaneità e «la vita è paralizzata da una cura intensiva permanente» (p. 39).
Una cosa va chiarita: Illich non si scaglia contro alcuni gruppi, tanto meno contro i singoli. La sua analisi mette in evidenza che i membri delle corporazioni professionali agiscono in buona fede e che proprio per questo la loro azione (come quella degli inquisitori cattolici, che agivano anch’essi in buona fede; questo è soltanto uno dei paralleli tra cristianesimo e organizzazione professionale della società che sono presenti in tutto il libro) è tanto più pericolosa: perché essi possono arrivare a sentirsi infine in dovere di espropriare gli altri del loro diritto di decidere, per il loro stesso bene (come in tutti i totalitarismi). Questa non è una novità assoluta del ventesimo secolo: in tutte le epoche gli uomini hanno volentieri delegato la propria capacità di pensare criticamente ad altri; Illich denuncia però il fatto nuovo che le organizzazioni professionali strutturano la società in maniera tale che la delega non sia più soltanto una scelta o un dovere imposto dall’autorità politica, ma qualcosa di più: qualcosa che non si può non fare, pena l’essere tacciati di asocialità e di irrazionalità (che nell’epoca del dominio della ragione cartesiana conduce al venir considerati meno che uomini).
Perché non ci si ribella alla tendenza del sistema a partorire servizi disabilitanti? La risposta che Illich si dà è che il primo dei poteri del sistema è quello di creare illusioni, soprattutto quella per la quale le persone sono nate per consumare e possono essere felici acquistando beni e servizi. Ma Illich non si abbandona alla disperazione di chi si sente irrimediabilmente stretto nella morsa del sistema; al contrario, conclude affidando al singolo la speranza di un cambiamento, che anzi reputa imminente: «migliaia di individui e gruppi possono sfidare il dominio che le professioni hanno imposto su di loro e le condizioni socio-tecniche nelle quali si trovano a vivere. Lo fanno attraverso i problemi che pongono e lo stile di vita che assumono in modo consapevole. [...] Queste minoranze non ideologizzate possono trasformarsi in una forza politica. L’Era delle Professioni Disabilitanti potrà veramente chiudersi quando queste minoranze silenziose saranno in grado di rendere chiaro il senso filosofico e giuridico di quello che tutte insieme “non vogliono”». Non una nuova etica antiprofessionale imposta dall’alto, ma una autoconsapevolezza che nasce dal basso e si spinge fino a conquistare porzioni sempre più ampie della società.
Il libro ha uno stile fluido e omogeneo, merito certamente della traduzione di Bruno Bortoli e Paolo Boccagni, ma dovuto anche al fatto che non esiste soluzione di continuità tra i vari capitoli, i cui autori – in quanto epigoni di Illich (che firma solo il primo dei cinque saggi) – tendono a battere gli stessi sentieri del maestro. Una interessante edizione del Centro Studi Erickson, arricchita dall’ampia introduzione biobibliografica curata da Bortoli.
(«Filosofia.it» online, ISSN 1722-9782, gennaio 2009)
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