giovedì 16 aprile 2009

R. Panikkar, La gioia pasquale (ed. Jaca Book); Divinità (ed. EMI); Le parole di Paolo, (ed. San Paolo), 2007

Sono usciti quasi in contemporanea tre nuovi libri di Raimon Panikkar, tutti e tre di argomento religioso: “La gioia pasquale, La presenza di Dio e Maria” (nella collana “Di fronte e attraverso” della Jaca Book), “Divinità” (nella collana “Parole delle fedi” dell’Editrice Missionaria) e “Le parole di Paolo” (dialogo con Gianfranco Ravasi moderato da Massimiliano Finazzer Flory, nella collana “Problemi e dibattiti”).
Il primo volume raccoglie tre saggi che Panikkar ha pubblicato quasi quarant’anni fa per la casa editrice La Locusta di Vicenza: La gioia pasquale (1968), La presenza di Dio (1970) e Maria (uscito nel 1972 con il titolo Dimensioni mariane della vita). Essi vengono oggi ripubblicati (fino al 2003 era possibile acquistare direttamente presso la casa editrice qualche copia residua degli ultimi due; La gioia pasquale era già esaurito) senza modifiche sostanziali, come spiega Panikkar nella postfazione.
I tre saggi sono le trascrizioni di interventi orali tenuti da Panikkar in quegli anni. La gioia pasquale è il triduo di preparazione alla Pasqua che Panikkar ha tenuto agli studenti dell’università “La Sapienza” di Roma nel 1963; il testo è stato tratto dagli appunti degli studenti e rivisto da Panikkar nel 1968 (p. 123). La presenza di Dio risale invece al ritiro tenuto da Panikkar il 20 febbraio 1966 presso l’eremo di don Divo Barsotti (Casa San Sergio) a Settignano, Firenze. In nessuna delle due edizioni si accenna al modo in cui il testo si è formato. La prima parte dell’ultimo saggio (“Maria”), pp. 81-104, è la traduzione della prefazione di Panikkar al libro di Jean Guitton La Virgen Maria, Rialp, Madrid, 1952; la seconda parte (“Dimensioni mariane della vita”), pp. 105-118, è invece il testo di una conferenza tenuta al Centro Universitario Marianum di Roma nel 1963 (anche in questo caso non si dà conto della formazione del testo; nel testo originale, tuttavia, p. 50, Panikkar annota mentre parla che l’intervento viene registrato magnetofonicamente. Questa annotazione è stata rimossa nella nuova edizione).
Ma c’è qualcosa che accomuna questi testi, al di là della oralità della forma originaria. Si tratta certamente di tre testi cristiani; ma non di teologia cristiana, né di pastorale o di catechesi. Non si disserta né di questioni dogmatiche né di princìpi etici; ciò che Panikkar mette in luce è la centralità dell’esperienza cristiana, della necessità di penetrare, anima e corpo, all’interno del mistero di Dio. Con il suo consueto stile diretto e scevro da preziosismi, Panikkar afferma che «conferenze, pratiche, letture, tutto serve, ma in fondo sono soltanto occasioni perché ci sia l’esperienza personale, perché ci sia uno sprazzo di luce interiore che ci fa realizzare quello che l’intelligenza ha percepito, altrimenti tutto rimarrebbe nella teoria» (p. 75). Non è dunque sufficiente studiare la teologia al fine di imparare a “pensare bene” Dio; né basta osservare anche rigidamente una serie di prescrizioni morali, “comportandosi bene”. Per Panikkar non si tratta né di pensare né di fare, ma di essere: «Dal peccato originale in poi, l’uomo ha acquisito la tragica prerogativa (per la scienza del bene e del male) di poter possedere in un certo modo la verità, senza essere posseduto da essa, di poter avvicinarsi alla realtà e anche di poter riconoscere il bene, senza essere per questo vero, verace, buono. [...] Si può aver fede in Cristo e non amarlo, si può essere teologo e non essere in grazia, si può possedere la verità ed essere nell’errore, si può, infine, essere ortodosso e andare fuori strada» (pp. 81-82).

Nel secondo volume, Divinità, Panikkar adegua il suo discorso al formato enciclopedico della collana “Parole delle fedi”, che si propone come «vocabolario interreligioso» in un’epoca caratterizzata dal pluralismo religioso alla quale tuttavia «troppo spesso [...] mancano il linguaggio e le informazioni di base» (pp. 7-8). Panikkar parte dall’ambiguità e dalla polisemia del termine “divinità”, facendone una lucida e diacronica analisi linguistica. Passa poi all’esame dei vari orizzonti all’interno dei quali la divinità è stata storicamente concepita dall’umanità e dei metodi impiegati (teologico, fenomenologico, filosofico).
Ciò sullo sfondo della sua visione cosmoteandrica (per la quale la coscienza, il cosmico e il divino sono tre dimensioni della realtà reciprocamente irriducibili; non c’è l’una senza l’altra, ma non sono la stessa cosa): «Dal momento che la divinità [...] non possiede un referente al di fuori della coscienza umana, la sua struttura dipende dalle opinioni dell’individuo su di essa e da quelle di ogni coscienza umana per la quale la nozione stessa ha un qualche senso. In altre parole, quel che la divinità è, è inseparabile da quel che gli uomini credono che sia» (p. 25). Un’idea che può essere spiazzante, ma che Panikkar ha espresso in maniera inequivocabile in ben più d’un’occasione, anche a proposito dello stesso “Dio”: «Non esiste nessun Dio senza uomo, nessun uomo senza mondo, nessun mondo senza Dio. Questi tre si appartengono. [...] La vera visione della realtà scopre in ogni essere, in ogni piccola cosa, sia il Divino che l’umano e il materiale. La chiamo visione cosmoteandrica» (R. PANIKKAR, Saggezza stile di vita, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI), pp. 79-80) e della “trascendenza”: «Sarebbe impossibile parlare di trascendenza se essa non fosse in qualche modo immanente» (ID., Introduzione a R. PANIKKAR (A CURA DI), Henri Le Saux - Swami Abhisiktananda. Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyasin hindu 1948-1973, Arnoldo Mondadori, Milano 2001, p. 20). Ancora più in generale ne ha parlato utilizzando la metafora del modello geografico (nel quale la sommità della montagna è la divinità, ovvero il fine d’ogni religione, e le diverse religioni sono i sentieri per giungere alla sommità): «Questo modello porta a vedere ogni via come un versante diverso della montagna da scalare (ciò che spiega anche con immediatezza le differenze evidenti tra le religioni). E conduce ad una considerazione interessante: se si distruggono tutti i sentieri, la sommità svanisce, qualunque sia la sua natura» (ID., Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi (PG) 1988, p. 43).
Ancora una volta, dunque, è la centralità dell’esperienza umana il cardine del discorso di Panikkar: «Di fronte alle numerose opinioni sulla divinità, dobbiamo fare affidamento sull’unico fattore comune a tutte loro, ovvero la coscienza umana, che usa appunto il termine divinità o qualche altro termine equivalente» (p. 42). Questo perché «noi facciamo affidamento sul fatto che gli uomini, usando questo termine o i suoi equivalenti, abbiano pur voluto significare qualcosa» (Ivi).
Un’ultima segnalazione è doverosa. A p. 58 Panikkar scrive: «Una cosa sembra emergere come universale culturale e costante storica: oltre al mondo e all’uomo c’è un terzo polo».
Ora, nel 1995 Panikkar aveva affermato recisamente che non esistono “universali culturali”: «Ci sono invarianti umani – tutti gli uomini mangiano, tutti gli uomini ridono, tutti hanno un corpo, danzano, hanno una certa socialità, parlano; ma non ci sono universali culturali, cioè non c’è nessun valore culturale che regga universalmente, e molto meno a priori. In ogni tempo c’è un certo mito dominante che permette alcuni universali culturali, ma questi variano con il tempo. [...] Il fatto che tutti gli uomini mangino non vuol dire che il mangiare abbia per gli uomini lo stesso senso e quindi produca gli stessi risultati. [...] L’invariante umano è il mito che io costantemente presuppongo anche per parlare di universali umani, quindi non posso manipolare gli invarianti umani perché, dal momento che parlo, sto già dentro una cultura» (ID., “Politica e interculturalità”, in R. PANIKKAR ED AL., Reinventare la politica, l’altrapagina, Città di Castello (PG) 1995, pp. 9-10). E nel 1997 aveva spiegato, a proposito dei cosiddetti valori trans-culturali: «Senza dubbio vi sono valori interculturali ma non ci sono valori trans-culturali. Per “valori interculturali” intendiamo valori che sono validi in diverse culture. Mentre è da intendersi come “trans-culturale” un valore che sta al di sopra di tutte o di alcune culture, senza appartenere specificamente a nessuna di esse. Ogni valore è legato inevitabilmente quantomeno a una cultura. Non c’è valore che esista in vacuo. Non ci sono, in realtà, “prospettive globali”. Veniamo continuamente rinviati ai nostri punti di vista particolari» (R. PANIKKAR, L’esperienza filosofica dell’India, Cittadella, Assisi (PG) 2000, pp. 109-110).
Tuttavia, già nel 1979 aveva sostenuto, a proposito del cosmoteandrismo: «Non conosco alcuna cultura in cui non siano presenti in una forma o nell’altra le triadi cielo-terra-inferi, passato-presente-futuro, Dei-uomini-Mondo, i pronomi io-tu-esso e perfino la triade intellettuale di sì, no e la loro fusione» (ID., Mito, fede ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2000, pp. 148-149). Questa frase sembrerebbe affermare – anche se solo di fatto e non anche di diritto – l’esistenza di una realtà comune a tutte le culture, il cosmoteandrismo, appunto.
Sorgono due problemi. In primo luogo, le due proposizioni 1. “Non esistono universali culturali” e 2. “Il cosmoteandrismo è un universale culturale” sono reciprocamente incompatibili. In secondo luogo, la seconda è incompatibile con tutto il pensiero di Panikkar: inserendo nel discorso una prospettiva assoluta, oggettiva, al di sopra delle parti (un'idea trans-culturale, appunto), essa minerebbe alla base l’intera filosofia di Panikkar, rendendo impensabili la sua stessa nozione di pluralismo e tutta la critica alla scienza e alla cultura dominante, e smantellando l’impalcatura del dialogo paritario tra le religioni.
Non si può escludere l'ipotesi che Panikkar non abbia avuto la possibilità di rivedere il testo prima della pubblicazione, ipotesi non inverosimile, date le sue recenti condizioni di salute: l’accoglimento della quale, ovviamente, permetterebbe in linea di principio di sostenere qualunque tesi. Né la posizione del 1979 – mai ritrattata – può essere considerata semplicemente datata. Si potrebbe cercare di “smussare” i bordi di entrambe per ridurre lo stridore, facendo leva sul «sembra emergere» di p. 58, che riduce la 2. a una constatazione di fatto e non di diritto (e al contempo limita la 1. al solo diritto, non escludendo che, di fatto, in un certo arco storico e limitatamente alla conoscenza disponibile, si possano dare idee che appaiono universali). Questa strada appare tanto più percorribile quanto più la si segue alla luce del senso complessivo dell’opera di Panikkar; non va però nascosto che – nonostante essa incontri il favore di chi scrive – si tratta pur sempre di un’operazione di “limatura” praticata a posteriori: a stretto rigore, l’espressione “universale culturale” non andrebbe utilizzata nel senso proposto.

Nell’ultimo testo, infine, Panikkar offre – nelle sette pagine complessive dei suoi interventi – un succulento antipasto al neofita: egli spazia infatti dalla riflessione sulla storia a quella sulla Parola, cita le Scritture cristiane e quelle vediche, parla di “tempiternità” e di “a-dualità”. Le tematiche tuttavia vengono solo sfiorate; né potrebbe essere altrimenti in un libro di queste dimensioni scritto a quattro mani.
Si inciampa però nell’affermazione di p. 22: «Se Dio è Amore, ne consegue che si deve dire che l’Amore è Dio, per cui un qualsiasi amore autentico è divino». La mente salta istintivamente alla critica che l’autore ha spesso rivolto all’erronea applicazione della proprietà commutativa dell’algebra (A = B implica B = A) alla realtà: «Gesù è il Cristo, ma il Cristo non può essere completamente identificato con Gesù. Il fraintendimento deriva dall’indebita estrapolazione del metodo scientifico moderno, applicato a una realtà che riduce la conversione a una formula algebrica che si può scrivere sulla lavagna. Se A è B, B è A. Ma Gesù non è A, né Cristo è B» (R. PANIKKAR, Cristofania. Nove tesi, Dehoniane, Bologna 1994, pp. 17-18).
Il fatto che qui i termini dell’uguaglianza siano diversi (Dio e l’Amore anziché Gesù e il Cristo) non giustifica un accantonamento tanto repentino del principio della critica; neanche l’esiguità dello spazio a disposizione può essere una giustificazione. In nessun altro testo Panikkar ha sostenuto la validità della commutatività in generale e in una forma così apodittica: «Ne consegue che si deve». E perché mai “si dovrebbe”, se la “consequenzialità” può essere criticata (in quanto inapplicabile in generale alla realtà)? Posizione gravida di conseguenze, poiché a rischio è qui l’intero impianto della teologia di Panikkar, basata sulla presenza del Cristo nella storia delle religioni non cristiane.
Anche qui si potrebbe pensare che Panikkar non abbia rivisto il testo (per la qual cosa valgono le osservazioni precedenti) o, in più, si potrebbe immaginare che lo stile orale del dialogo abbia generato un fraintendimento in fase di stesura. Resta da sperare che l’Opera Omnia di Panikkar in italiano, in preparazione da parte della Jaca Book, di cui è appena uscito il primo volume, possa far luce sulle due questioni illustrate. Le quali, al momento, restano aperte.

(«Giornaledifilosofia.net» online, ISSN 1827-5834, novembre 2008)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano