giovedì 16 aprile 2009
G. Vacchelli, Dagli abissi oscuri alla mirabile visione, ed. Marietti, 2008
L'ultimo libro di Gianni Vacchelli, Dagli abissi oscuri alla mirabile visione, edito da Marietti, appartiene al genere delle cosiddette “letture bibliche”: l'Autore rilegge le quattro storie di Giona, del Cantico dei Cantici, di Giobbe e di Abramo offrendo una prospettiva personale che attinge a fonti diverse (Vacchelli si muove a suo agio tra Jung, la mistica medievale, l’esegesi rabbinica, la teologia protestante, il magistero cattolico, la saggezza orientale, la letteratura contemporanea, la poetica dantesca) senza appiattirsi su nessuna di esse. In questo senso il libro è un “crocevia” di tradizioni che si incontrano e dialogano, che sa essere all'altezza dell'ambizioso obiettivo che l'A. si prefigge fin dall'inizio: quello di “raccogliere i frammenti” sparsi delle varie conoscenze specialistiche per riunirli insieme in una visione non omogenea, ma che possa rilucere come diamante dalle diverse sfaccettature (cfr. n. 58, pp. 397-398).
La linea interpretativa proposta è coerente, cristiana senza essere settoriale ed armoniosa senza derive riduzionistiche né sincretistiche. La tesi di Vacchelli
è fondamentalmente questa: Dio chiama l'uomo a sé, anche attraverso la Scrittura; ma poiché l'amore di Dio passa necessariamente per la conoscenza di Dio (in quanto amore e conoscenza non sono separati) e poiché la conoscenza di Dio da parte dell'uomo passa necessariamente per la conoscenza che l'uomo ha di se stesso, quella di Dio è in realtà una chiamata affinché l'uomo si “risvegli” a se stesso, così com'è in realtà, e si accetti. Ecco il punto di partenza di ogni autentico cammino religioso: come potrebbe altrimenti un uomo intraprendere il viaggio verso Dio, se ignora perfino dove si trova? Fuor di metafora, contro ogni tendenza spiritualistica e devozionale, Dio chiama l'uomo a confrontarsi faccia a faccia con la verità, fino al caso estremo di Giobbe, «politicamente scorretto» (p. 166), ma che Dio preferisce all'ipocrisia dei teologi, disposti a negare l'evidenza pur di rendere la realtà conforme alle loro categorie intellettuali.
Per dirla appena un po' più tecnicamente, Vacchelli distingue in maniera molto incisiva tra il “livello etico” (soddisfazione delle esigenze morali, o di Dio, per così dire) e il “livello ontologico” (inserimento responsabile dell’uomo nel meccanismo della Vita, al cui fine la morale ordinaria è strumento); il capitolo su Giobbe è molto chiaro al riguardo. Quella di Vacchelli è una “teologia” dell'“essere” e non del “fare” né del “credere”: in questo senso (ma non solo) i grandi ispiratori del suo lavoro (apertamente dichiarati) sono due filosofi, il catalano Raimon Panikkar ( autore della prefazione al volume) ed il francese Maurice Bellet.
In particolare, da Panikkar Vacchelli trae l’impianto metafisico del suo studio (la visione cosmoteandrica, l’a-dualismo, l’unità di teoria e prassi); mentre da Bellet mutua nozioni come quella di “ritmo cristico” e “dio perverso” (nonché la tematica del misconoscimento di sé, il tentativo – maldestro ma tradizionale – di celare a se stessi il proprio desiderio, al fine di mantenere intatta la propria immagine di uomo pio e devoto). L'uomo, secondo questi autori, non è una macchina per l’esecuzione di “compiti morali”, ma una creatura che Dio ha scelto di trattare “non da serva, ma da amica” (Gv 15,15). Questo è il filo conduttore dell'intero testo: ciò che è anche alla base del tentativo audace (ma non temerario) di «riempire i blanks», colmando i “vuoti” di ciò che la Scrittura non riporta ma la Parola, forse, vuol dirci. Vacchelli lo fa con entusiasmo, ma senza slanci pindarici, con una metabolizzazione lenta e meditata che porta a maturazione ogni conclusione un passo alla volta, pagina dopo pagina: ogni capitolo comprende una introduzione generale, un commento puntuale al testo, un’incursione nell’ebraico antico, una panoramica dell’ermeneutica biblica classica sul brano, un esame dei simboli e della psicologia dei personaggi e dell'autore sacro. Lavoro che può giungere a maturazione, ma mai ad esaustione, perché – come all'A. piace ripetere – l'interpretazione della Scrittura è infinita, come infinita è la vita che promana da Dio. Come le parole degli innamorati, mai sazi d'amore, la Parola di Dio è sempre vecchia e sempre nuova.
Se proprio si volesse trovare un difetto a questo libro si potrebbe magari dire che la sua mole (quasi 500 pagine comprensive di appendici, note e glossari) può scoraggiare il lettore tiepido. Ma da questo punto di vista, lo stile fluido e mai prolisso e l'ampiezza scevra da dispersività della trattazione fa sì che sia un piacere leggerlo, fino alla fine. Merito di Gianni Vacchelli, e dell’editore Marietti, è in più di aver offerto al pubblico un’opera accessibile anche ai non specialisti; questo anche nel senso, richiamato da Panikkar nella prefazione, che la Scrittura Sacra è patrimonio dell’umanità intera, non di una cerchia ristretta, ancorché numerosa (di eletti, di cristiani, di dottori in teologia). Perché, in definitiva, la parola di Dio è annuncio; e l’annuncio, tipicamente, non lo si fa altrove che al crocevia.
(«l’Altrapagina», dicembre 2008)
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