giovedì 16 aprile 2009

F. Vander, Critica della filosofia italiana contemporanea, ed. Marietti, 2007

Il problema del divenire è antico come la filosofia: se l’essere è, come può divenire? Come può “essere” il “mutamento”: come può cioè una cosa non essere “più”? Questo è il punto di partenza dell’ultimo libro di Fabio Vander, che mostra quanto il tema, antico ma non vecchio, sia più che mai presente nell’odierno dibattito filosofico italiano, al quale per scelta l’Autore si limita: per Vander infatti «la maggiore filosofia al mondo si fa oggi in Italia» (p. 9). Ed è quindi con quattro autori italiani di spicco che si confronta: Emanuele Severino, Gennaro Sasso, Massimo Cacciari ed Andrea Emo.
Soltanto un fondamento come la contraddizione può permettere di venire a capo del problema del divenire senza cadere in aporie: questo è il tema del libro. «È perché ogni uomo è buono/cattivo che può poi essere detto buono, cioè può dar luogo all’incontraddittoria “opinione” della bontà (o cattiveria) di un singolo» (p. 21). L’Autore si rifà esplicitamente ad Hegel, del cui pensiero dialettico il libro è in verità una ricapitolazione puntuale e priva di sbavature, che ha il pregio
della chiarezza: una volta identificato il dispositivo intellettuale, per il quale all’ente necessariamente bisogna riferirsi in modo incontraddittorio, secondo il dettato del principio di non contraddizione aristotelico (p.d.n.c. nel testo), mentre l’essere è di necessità contraddittorio, l’argomentazione fluisce piana, regolare, senza sorprese. La contraddizione è regula veri, la non contraddizione è regula falsi. Solo la contraddizione, fondamento di una realtà che il linguaggio è costretto ad oggettivare secondo il p.d.n.c., può dare conto della realtà dell’esperienza nel suo multiforme divenire. Solo il Tutto è. Ed è tutto, cioè – nel comprendere gli estremi, ogni cosa ed il suo opposto – è contraddittorio. L’esperienza è parziale, unilaterale, non contraddittoria ed infine falsa. La parte può essere conosciuta autenticamente solo se ricondotta al tutto di cui è parte. Il meccanismo di riconduzione è la dialettica.
Purtroppo il libro (ma forse meglio si dovrebbe dire l’Autore) non ha anche il pregio dell’umiltà: Vander, che non perde tempo «con filosofie analitiche, epistemologie, postmodernità e “pensieri deboli”» (p. 13), intende stabilire non solo «che cosa davvero Aristotele disse a riguardo della contraddizione» (p. 12) ma soprattutto «cosa i nostri autori [cioè i quattro criticati] ne hanno capito» (ivi); per Vander, Severino ha «un modo invero ben strano di ragionare» (p. 18) ed Emo trae conclusioni in maniera assurda (p. 140), «resta fermo alla più ingenua delle ontologie» (p. 143) e deve «riconoscere il suo finale fallimento» (p. 150). Ma il suo vero bersaglio è Cacciari, il quale: «riscopre la mediazione ma si ostina a pensarla non dialetticamente, il che semplicemente è impossibile» (p. 96), sbaglia nell’interpretazione dell’enigma dell’oracolo di Delfi (p. 108), è arbitrario nella sua considerazione della dialettica (p. 111n.), «applica in modo errato la sua concezione della dialettica non solo a Croce ma anche a Gentile» (p. 115n.), «ha una percezione distorta, rovesciata del problema della politica» (p. 119), mantiene presupposti surrettizi a causa della sua «cattiva intelligenza della dialettica» (p. 123), si fa domande “retoriche” e “sbagliate” (p. 124), «è prigioniero del suo pregiudizio irrazionale» (p. 126), quando cita Aristotele «lo fa in modo improprio» (p. 126n.) ed in definitiva «confonde l’essere dell’ente con l’essere in quanto essere» (p. 128n.).
Vander intende mostrare la forza e la consistenza della concezione della dialettica di Hegel, e sceglie di farlo con “metodo dialettico”, cioè per contrapposizione alle filosofie dei quattro autori citati, facendo leva sulle debolezze di queste, mettendone in luce le aporie e spiegando infine i vantaggi che offre la dialettica hegeliana nella soluzione di tali problemi. In verità, la presentazione della dialettica gli riesce meglio della critica: la prima risulta infatti chiara, conseguente e precisa, mentre alla seconda sarebbe forse meglio convenuta una trattazione più estesa, basata su una bibliografia più ampia. Vander prende in esame tre testi di Severino, tre di Sasso, quattro di Emo ed addirittura uno solo di Cacciari (oltre alla prefazione di quest’ultimo ad un libro di Emo, che certo non si può considerare un “testo” da criticare). Egli dice di voler restringere il confronto all’«ultima filosofia italiana» (p. 11), ma è probabile che autori come quelli in questione, che hanno all’attivo decine e decine di libri ed il cui percorso intellettuale si dispiega in decine d’anni, si riconoscerebbero difficilmente nell’immagine che Vander ne restituisce; per cui la sua critica è quantomeno “parziale”. Inoltre, manca quasi del tutto la bibliografia secondaria sugli autori trattati, ciò che estromette la critica di Vander dal dibattito attuale intorno agli stessi.
Quest’appunto vale anche per la sua interpretazione di Aristotele, della quale non rivendica l’originalità, ma certo la correttezza (contro «determinati errori ermeneutici che il pensiero di oggi condivide con una secolare tradizione di interpretazioni aristoteliche», p. 12). Francamente questa è una cosa che lascia sconcertati. Vander, che non è certo uno scrittore alle prime armi, porta avanti la sua critica a queste vecchie interpretazioni e la sua proposta d’interpretazione senza citare una sola volta il testo greco di Aristotele (mentre le citazioni dal greco si sprecano in tutto il resto del libro, dove sono molto meno necessarie che su questo punto). Basa tutto su un paio di passi controversi, fa affermazioni apodittiche su questioni quantomeno discutibili e cita raramente la letteratura secondaria sull’argomento; il tutto senza astenersi dall’affermare a ogni piè sospinto (come già visto) che gli autori italiani (Cacciari soprattutto, che a sua volta novellino non è) sbagliano l’interpretazione di un problema filosofico di queste dimensioni, cioè la portata ontico-ontologica del p.d.n.c. Così come, pur comprendendo bene che l’opinione di Semerano e Giannantoni (benemeriti) non è probante in un ambito eminentemente filosofico (e non solo) come quello delle origini presocratiche della dialettica, nondimeno è in grado di affermare al riguardo, dopo sole sei pagine di trattazione, di aver raggiunto la dimostrazione cercata (p. 158).
È impossibile negare la conoscenza della materia e quella degli autori che Vander certamente possiede; anzi, è proprio per questo che si resta stupiti. Escluso ogni sospetto d’imperizia, non resta che pensare che l’atteggiamento descritto sia semplicemente il riflesso di quello che Vander ha nei confronti dei pensatori che critica: egli li tratta di continuo come se, avendo a disposizione una filosofia consistente e adamantina come quella hegeliana, si ostinassero – per motivi oscuri, o per cattivo carattere – a battere sentieri impervi e sdrucciolevoli, la cui sola meta non può che essere l’aporia. Sembra accusare questi filosofi di non aver letto Hegel e Aristotele, o di averli capiti male (e quasi, certe volte, di farlo apposta); non dà conto, a chi non ha letto Della cosa ultima, del fatto che Cacciari non può assumere integralmente una prospettiva hegeliana perché attanagliato dal seguente dilemma: «Abbiamo visto come il testo aristotelico stesso [il libro V della Metafisica] sembri alludere ad altro, a ‘qualcosa’ che il pensiero ‘patisce’ senza poter ‘risolvere’. Dobbiamo mettere a tacere questo suo dramma? Il pensiero vuol far vedere; il nostro discorso tende sempre ad apparire puramente apofantico. Ma l’arché sembra avere una voce che è difficile non ascoltare, e ancor più difficile ‘ripetere’» (M. Cacciari, Della cosa ultima, p. 40). Ma, per Vander, come per lo stesso Hegel, la filosofia hegeliana è un punto d’arrivo; ciò che viene prima sbaglia per difetto, ciò che viene dopo, per eccesso. (Russell, che è probabilmente il «“maestro” dispensabile del Novecento» di cui Vander parla a p. 144n., rilevò che, secondo la Fenomenologia dello spirito, «l’Universo sta gradualmente imparando la filosofia di Hegel»: B. Russell, Storia della filosofia occidentale, Milano, Longanesi, 19962, p. 704).
Ma la coerenza interna del sistema non è l’unica esigenza della filosofia. Un problema come quello di Cacciari (e di Aristotele) non può essere semplicemente “messo a tacere”. In più, oggi la filosofia non può esimersi dal confronto con la scienza moderna – qualunque sia l’ambito ed il livello di validità che si è disposti a riconoscerle in quanto forma di sapere – il che non vuol dire che essa debba essere accomodante anche quando, giustamente, rinuncia ad essere mera ancilla scientiae. Leggendo il libro, non si può non chiedersi cosa penserebbe un uomo di scienza, ancorché non prevenuto e genuinamente interessato alla speculazione filosofica, di fronte ad un’affermazione del genere: «“Determinazione noetica” è allora quella che indica proprio la natura contraddittoria del bianco e del nero; per cui il nero è non-nero ed è condizione della sua determinazione (dianoetica) come “opinione” del puro nero. In altre parole posso avere l’opinione (non la verità) che il nero è solo nero, sulla scorta della determinatio della verità del nero, che è dialettica, cioè contraddittoria, cioè nero/non-nero. L’opinione è la determinatio della verità, è l’unilateralizzazione della contraddizione» (p. 26). Non è solo una questione di linguaggio. Per la scienza è indispensabile attingere ad un saldo fondo di oggettività (anche se solo in termini di intersoggettività); essa non può fermarsi al fatto che «il miele è dolce/amaro, ma c’è “chi lo guarda” dolce e “chi lo guarda” amaro» (p. 62). Per la scienza, l’ontologia della contraddizione è problematica da conciliare con il dato imprescindibile d’esperienza (anche di fronte a fenomeni e teorie “olistici”, quali ad esempio l’entanglement quantistico o la teoria fisica del bootstrap); detto altrimenti, non le è sufficiente affermare la mera utilità pratica del p.d.n.c., dicendo che «serve a non buttarsi nei burroni» (p. 46).
Dalle pagine trapelano l’entusiasmo e la passione dell’Autore, che ci tiene a fugare ogni dubbio, non è avaro di esempi che possano giovare alla spiegazione e fa di tutto per non lasciare nulla in sospeso. Né manca vivacità al testo, pur dotato di un linguaggio omogeneo e rigoroso: come quando Vander rievoca il pirandelliano “uno, nessuno e centomila” a proposito della incontraddittorietà degli enti (p. 80), o come quando dice che «l’esperienza è solo la fugace indian summer del finito» (p. 60). In conclusione questo libro, solida introduzione alla dialettica hegeliana – la cui lettura può risultare impegnativa per la mole delle note (che spesso superano in ampiezza lo stesso testo) ma non per farraginosità dell’esposizione – resta una testimonianza lampante di quanto forte possa essere ancora oggi, a due secoli di distanza, il fascino di una filosofia avvolgente come quella di Hegel, che ha preteso – e pretende – di fondare la filosofia “incontraddittoriamente, sulla contraddizione”. Pochissimi i refusi tipografici di questa bella edizione Marietti.

(«ReF-recensionifilosofiche.it» online, ISSN 1826-4654, n° 28, aprile 2008)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano