giovedì 16 aprile 2009
Determinismo e verità oggettiva della fisica in una prospettiva filosofica
Il prof. Francesco De Martini, nel bell’articolo pubblicato di recente su “Micromega” (Il mondo oggettivo della meccanica quantistica e le leggende dell’ermeneutica, “Micromega”, 2/2007, pp. 151-162), si preoccupa di tener fermi due punti riguardo alla fisica attuale (ed all’ontologia e all’epistemologia ad essa connesse): 1. il determinismo della fisica e 2. l’esistenza di una realtà oggettiva (e la capacità della fisica di coglierne la verità oggettiva). Il professore riesce perfettamente nell’intento auspicato di essere sintetico ed efficace nell’esposizione senza un utilizzo eccessivo del formalismo matematico (p. 153). Tuttavia, le nozioni di determinismo e di oggettività richiedono a mio avviso un ulteriore approfondimento dal punto di vista filosofico. Ciò che qui mi propongo.
DETERMINISMO
De Martini afferma che la fisica, dopo l’introduzione della meccanica quantistica, non solo non è meno deterministica di quanto lo fosse prima, ma lo è addirittura di più. Non lo è meno perché, già prima della nascita della meccanica quantistica, la meccanica statistica di Boltzmann (ma non solo, come De Martini osserva a p. 156) aveva scardinato l’idea che si potesse associare una causa precisa al comportamento di ogni singola particella di gas (l’oggetto principale del suo studio), e che bisognava accontentarsi di una misurazione statistica, cioè basata sulla media delle misurazioni di quantità di gas costituite da molte particelle. Il termine “accontentarsi” non è casuale: all’epoca si immaginava che tale limite fosse da imputare essenzialmente agli strumenti di indagine, e che in linea di principio il comportamento di ogni singola particella sarebbe stato, pur di disporre di una strumentazione adeguata allo scopo, inequivocabilmente predicibile.
Gli stessi fondatori della meccanica quantistica erano inizialmente scettici circa gli esiti dei loro esperimenti; Heisenberg continuava a chiedere al suo mentore Bohr: “È possibile che la natura sia così assurda?” Einstein rimase scettico ben più a lungo di Heisenberg (De Martini ne parla a proposito del paradosso EPR), e da scettico morì, dieci anni prima della pubblicazione del teorema di Bell (ci ritornerò a proposito del ruolo della soggettività nella ricerca scientifica). Da quel momento in poi, fu chiaro che, indipendentemente dal progresso tecnologico, non sarebbe mai stato possibile conoscere in anticipo il comportamento di una singola particella. Ma ciò non era più così scandaloso per i fisici del 1965: era infatti già passato quasi un secolo dalle affermazioni di Boltzmann sull’uso della statistica nella meccanica dei gas, e mezzo secolo era passato dai primi esperimenti quantistici. La meccanica quantistica non aveva fatto altro che introdurre, per così dire, “di diritto”, ciò che di fatto era stato già accettato molto tempo prima.
La fisica è inoltre più deterministica di prima, secondo De Martini, perché la non-località dell’entanglement consente previsioni certe a velocità superiori a quelle della luce.
Il discorso del professore è molto lineare. Sia che si parli di causalità (intesa come principio espresso nella forma “ogni evento è l’effetto di qualche causa”), ovvero di determinismo (diciamo che una teoria che descrive l’evoluzione nel tempo di un dato sistema S è deterministica quando, dati un certo stato s(t0) di S all’istante t0 e una certa legge dinamica L, lo stato s(t) ad un certo istante t rimane univocamente determinato da s(t0) ed L), ovvero ancora di predicibilità (intesa come possibilità di predire stati o valori precisi, nell’ambito del margine di errore fissato, relativi ad un certo sistema; per le definizioni utilizzate, cfr. Laudisa [2006]), la fisica ha rinunciato ad esprimersi in termini che non siano probabilistici, e questo ben prima dell’introduzione della meccanica quantistica: la quale non è dunque diretta responsabile di questo cambiamento di rotta (p. 156). Essa tuttavia non è certo neutrale rispetto a questa conclusione, anzi la rinforza: solo al suo interno infatti noi possiamo osservare “effetti privi di causa” (Davies [1983], p. 145; Capra [1982], p. 74), e solo con il principio di indeterminazione si è potuto concludere con l’assoluta imprevedibilità del singolo risultato sperimentale, indipendentemente dalla precisione dei mezzi e dall’accuratezza della prova.
Per concludere in termini filosofici, dirò che la materia possiede un certo grado di libertà che si manifesta nella sua intrinseca non-predicibilità; inoltre, allo stato attuale delle nostre conoscenze (e tale stato attuale deve certamente essere un dato ineliminabile da parte di ogni filosofia che non voglia essere visionaria), la natura sembra presentare un aspetto opaco, impenetrabile al pensiero, ad esso irriducibile. La realtà eccede il pensiero, e la materia attesta la sua oggettività (nel senso della sua originaria eterogeneità rispetto al pensiero) proprio nell’essere “a prova di pensiero”. Nessuna mente può dunque abbracciare l’intero universo.
Se le cose stanno così, com’è possibile allora che la parola “determinismo” a proposito della scienza susciti immediatamente l’idea di una causalità rigidamente prescritta, di una predicibilità completa e spesso anche di una sorta di infallibilità (la legge di gravità non può essere violata, si pensa)? Non si tratta semplicemente di un’immagine “popolare”: essa è ben diffusa anche tra la popolazione di cultura media e alta, come è testimoniato da un certo stile pubblicitario che si affida sempre di più “agli esperti” o ai “test di laboratorio” per concludere che questo o quello è “dimostrato scientificamente”. Come è possibile che a tutt’oggi si sia rimasti ancorati ad una visione ottocentesca del mondo fisico?
In parte, è certamente vero ciò che affermano gli scienziati, e cioè che della verità scientifica si abusa a ogni piè sospinto, soprattutto perché a parlare sono quasi sempre non addetti ai lavori (giornalisti, divulgatori, filosofi) che rendono conto delle cose in maniera lacunosa, o travisata, o peggio ancora manipolata (p. 152).
Ma non è tutto qui. Alcuni scienziati (e tra i più eminenti) si esprimono in maniera ben poco rigorosa e ancor meno proporzionata ai successi della scienza: l’insigne fisico Stephen Hawking [1988] può ancor’oggi auspicare che l’uomo giunga a comprendere la mente di Dio (p. 197), secondo il vecchio sogno di Laplace: «Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come effetto del suo stato anteriore e come causa del suo stato futuro. Un’intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze di cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi» (citato in Vulpiani [1994], pp. 14-15). Oggi sappiamo (e l’articolo di De Martini contribuisce a chiarircelo) che questo sogno è irrealizzabile (soprattutto grazie alle recenti acquisizioni della teoria del caos, secondo le quali è impossibile prevedere l’evoluzione di certi sistemi, ancorché deterministici, a causa dell’impossibilità di risolvere le equazioni esponenziali che li descrivono e di acquisire i dati iniziali con l’accuratezza da essi richiesta; si ricordi tra l’altro che, a sbarrare la strada al sogno di conoscenza “totale”, basterebbe anche soltanto la rinuncia della fisica all’indagine dei fenomeni unici). Tuttavia, l’occasione è spesso gradita a qualche fisico per utilizzare un linguaggio religiosizzante, che conferisce alla scienza un’aura particolare, e la eleva al di sopra del dibattito tra le varie opinioni, collocandola sul piano quasi sovrannaturale della “oggettività”: così, ad esempio, nel 2004, i fisici Georges Charpak – premio Nobel per la fisica nel 1992 – e Roland Omnes hanno pubblicato un libro dal titolo Siate saggi, diventate profeti. Non a caso Hawking parla di Dio e non, ad esempio, della realtà. Lo stesso De Martini non sfugge a questa tentazione (p. 162): «Dobbiamo sapere con certezza che la nostra salvezza non potrà che venire da lì, dalla scienza». Ciò nonostante egli, appena quattro righi prima, abbia scritto: «Non abbiamo inteso enfatizzare il mito della scienza». L’impatto è ancor più forte se la frase viene accostata al biblico “La salvezza viene dal Signore” (Gn 2, 10). È evidente che, al di là delle opinioni personali di ciascuno, questo tono “messianico” non incentiva una discussione lucida e volta ad una retta comprensione, soprattutto in un’epoca in cui la scienza (nonostante la moderazione di molti) corre costantemente il rischio del delirio di onnipotenza.
OGGETTIVITÀ SOGGETTIVA
De Martini si preoccupa in seconda battuta di rinforzare la credenza nella “realtà oggettiva” per contrastare una deriva relativistica: «Se ad esempio la cosiddetta realtà oggettiva non esistesse, la fisica e quindi tutta la scienza sarebbe riducibile ad una mera “corrente di pensiero”. In questa prospettiva ermeneutica ogni giudizio di merito scientifico sulla realtà sarebbe il risultato di un’opinione, per quanto legittima» (p. 152).
Che la materia rivendichi una certa oggettività l’abbiamo appena visto. Tuttavia è opportuno non dimenticare che ogni oggettività è sempre tale per una soggettività che la rileva. Una certa cosa è oggettiva quando, al di là delle eventuali discrepanze tra i diversi modi di descriverla, si presenta a più soggetti che la riconoscono come tale.
Ovvero: nulla di ciò che noi chiamiamo “enti” o “cose” è alcunché, se non la mera possibilità di entrare in relazione con qualcos’altro. Tutto ciò che noi vediamo delle cose è il loro essere con-noi. Si tenga ben fermo che “essere” è un verbo, non un sostantivo. Non esistono ipostasi metafisiche (o almeno non se ne ha evidenza fisica), a priori date, in certo qual modo sospese in attesa di manifestarsi a qualcos’altro. Le cose esistono nell’incontro, nella relazione. Al di fuori esse non sono niente, sono solo possibilità di entrare in relazione.
Ovvero ancora: non esiste alcuna “cosa in sé”. Quella che Kant chiamava noumeno, la fisica dei nostri giorni ci insegna che è qualcosa di non sperimentabile, e che quindi non si tratta di una realtà fisica. Perciò, “oggettivo” non può avere il significato di “in sé”, né può avere il significato di “esistente indipendentemente da me”. “Cosa fa la particella quando non la stiamo osservando?” si chiedono gli studenti per la prima volta alle prese con la meccanica quantistica. Ma è noto che la domanda è priva di senso: l’epistemologia e l’ontologia scientifiche convergono nell’affermazione che, al di fuori di quella osservata nell’ambito di un certo esperimento, non vi è alcuna realtà quantistica. Qui non si vuole arrivare a dire che la montagna sparisce quando smetto di guardarla, ma solo ricondurre l’oggettività al suo ineliminabile fondamento soggettivo.
Del resto, checché se ne voglia dire, la soggettività ha sempre avuto (e sempre avrà) un ruolo decisivo, per non dire preponderante, nell’ambito della fisica, come in tutte le attività umane. È innegabile ad esempio che ogni esperimento prenda le mosse da una ben precisa teoria che lo ispira e che attende di essere verificata o smentita da una opportuna interpretazione dei dati ottenuti; ed è noto che non esiste alcun metodo oggettivo per determinare la forma di un certo esperimento (dovuta piuttosto alla creatività del singolo ricercatore) ovvero la maggiore o minore opportunità di una certa interpretazione. Si potrebbero moltiplicare i semplici esempi di Einstein che rifiuta le conseguenze della meccanica quantistica (nonostante non possa negare i risultati quantitativi degli esperimenti, ciò che però non gli impedisce di continuare a dissentire sui principi) in base alla sua convinzione che “Dio non gioca a dadi”, o di Hawking che – dopo aver costretto i riluttanti colleghi ad accettare la sua teoria tramite l’“inoppugnabile” dimostrazione del suo teorema – cambia idea e prova a convincere gli stessi della teoria opposta. Insomma, neanche il più freddo luminare può ritenere il proprio pensiero tanto oggettivo da non subire l’influenza delle sue più personali inclinazioni. Né a questa regola fa eccezione la filosofia: si sa che anche la più rigorosa delle filosofie non è altro che l’esplicazione dei presupposti del filosofo. Il che non ci sorprende se è vero, come scrive Fichte [1797], che l’adozione di una certa filosofia piuttosto che d’un’altra dipende dalla propria personale inclinazione e, in definitiva, dal tipo d’uomo che si è (p. 19).
La fisica raggiunge la sua conoscenza passo dopo passo, tentativo dopo tentativo, perfezionando leggi che non sono mai “esatte”, (cfr. Feynman [1965], p. 37) e la sua gloria consiste in buona parte nel saper approfittare dei fallimenti (soprattutto di quelli colossali) per costruirvi i successivi trionfi. Tutte le teorie fisiche sono, potremmo dire per il loro stesso “statuto”, incomplete, inesatte, provvisorie. Ciò non le svaluta: una teoria provvisoriamente e limitatamente valida non è per questo meno valida. (I successi della scienza sono una realtà indiscutibile, nel bene e nel male, quindi non mi ci soffermerò. Chi parla è uno che viaggia in auto e in treno, legge di sera con l’illuminazione artificiale e si lava con l’acqua calda corrente. Contento di poterlo fare). Il punto fondamentale, che riallaccia in conclusione l’oggettività alla soggettività, è che la fisica è sempre a cavallo tra ciò che sappiamo (risultato innegabile dell’esperimento, che certamente è scaturito dall’incontro con “qualcosa” anziché con il nulla) e ciò che non sappiamo (e che andrà riassunto e formulato in una teoria necessariamente incompleta e necessariamente influenzata dalle opinioni degli uomini che la esprimeranno, ciò che i fisici sono soliti chiamare “immagine del mondo”). Possiamo allora dire che la fisica “aspira” a colmare sempre meglio le lacune della conoscenza (e dunque a diventare sempre meno soggettiva); ma non possiamo dire che essa “sia già” oggettiva, né che essa potrà mai esserlo del tutto. Immaginare l’oggettività senza soggettività è assurdo quanto immaginare un albero senza radici: nulla vieta di pensarlo, ma nulla di simile esiste in realtà.
OGGETTIVITÀ E COSA
Ancora un piccolo chiarimento sulla “cosa in sé”. Che la cosa in sé non esista, stavolta, non è una questione di prospettiva filosofica o ermeneutica, ma un dato di fatto attestato dalla scienza. La cosa in sé non è mai stata individuata né sperimentata da nessuno. Per la sua stessa definizione (la cosa in sé è qualcosa che si dà senza che ci sia nessuno a cogliere questo darsi, una contraddizione in termini), non potrà mai essere sperimentabile: nell’attimo in cui tale cosa in sé toccasse un qualunque strumento di misura, in quello stesso attimo cesserebbe di essere in-sé per diventare con-lui.
Ma il fatto è che nulla è per-sé, tutto è-con, co-è. Nulla nasce che non venga per ciò stesso ed invariabilmente al mondo. Qual è la temperatura di una quantità di liquido immersa in una vasca? Dipenderà dalla temperatura iniziale del termometro (ma, ancora prima, dalla possibilità dell’esistenza di un termometro). Non c’è modo di accedere alla realtà senza perturbarla: questa conclusione è ben precedente alla meccanica quantistica. (Qui il linguaggio tende le sue trappole ad oltranza: non è che ci sia una realtà a priori che viene perturbata a posteriori: in verità, ogni misura è una co-misura, un rispettivo adeguarsi del misurante e del misurato). La meccanica quantistica sembra tuttavia averla rafforzata: nell’esperimento (citato) riportato da De Martini, i fotoni formano la figura d’interferenza solo quando non vengono osservati (nel qual caso, si dice, si comportano come onde). Quando invece vengono osservati, i fotoni – si dice – si comportano come particelle. Ma allora: com’è questo fotone? (Alla fine di questa domanda, prima del punto interrogativo, viene sottintesa la formula “in sé”, cioè indipendentemente dall’osservatore). Ma la domanda, abbiamo già visto, è priva di senso. (Anche qui, va notato, lo stesso linguaggio che ho utilizzato, che è poi il linguaggio correntemente utilizzato in fisica, pare alludere a qualcosa “in sé”, che a volte si comporta come onda, altre volte come particella. Il che, ancora una volta, è scorretto).
L’idea della cosa in sé è un retaggio della meccanica newtoniana e della filosofia kantiana che non ha alcun riscontro nell’esperienza. Ciò non va a discapito dell’oggettività né della validità della teoria fisica (per la quale, a non voler essere del tutto in malafede, sono più gli innegabili risultati pratici a parlare che le varie posizioni apologetiche di questo o quel fisico). D’altro canto, è indiscutibile che la fisica non possa studiare tutta la realtà presa in blocco, e che debba necessariamente isolare alcuni “oggetti” per poterli studiare in laboratorio. Ciò però non significa che la realtà sia fatta di parti giustapposte: al contrario, la realtà è una e indivisa (ciò che il fenomeno fisico dell’entanglement quantistico sembra mostrare al di là di ogni ragionevole dubbio).
VERITÀ OGGETTIVA E VERITÀ OGGETTUALE
C’è un’ultima “perplessità linguistica”. Per comodità spesso si usano approssimazioni del linguaggio utili, ma fuorvianti. E siccome il retto pensare non può prescindere dal retto parlare, questa abitudine è perniciosa. È per esempio il caso delle “leggi” di natura, per cui si dice che la natura si comporta “in conformità” a quelle leggi. Ma è chiaro, o dovrebbe esserlo, che la natura non ossequia nessuna norma matematica, e si comporta come le pare. Di conseguenza, la natura non “viola” una legge, semplicemente la legge era inadeguata e va modificata (cfr. Laughlin [2005], p. 8).
Un altro esempio tipico è quello della materia. La fisica classica ci ha abituati a credere all’esistenza oggettiva della materia inanimata (delle cose, degli oggetti), ma questa idea “sostanzialistica” è incompatibile con quella della funzione d’onda quantistica (ovvero, del dualismo onda-particella). A questo proposito val la pena ascoltare direttamente la posizione della meccanica quantistica su questo argomento, nella persona di Werner Heisenberg [1958]: «Tutti gli oppositori dell'interpretazione di Copenaghen concordano in un punto. Sarebbe desiderabile, secondo loro, ritornare al concetto di realtà della fisica classica o, per usare un termine filosofico generale, all'ontologia del materialismo. Essi preferirebbero tornare all'idea di un mondo reale oggettivo le cui particelle minime esistano oggettivamente nello stesso senso in cui esistono pietre e alberi, indipendentemente dal fatto che noi le osserviamo o no. Ciò è tuttavia impossibile o almeno non interamente possibile a causa della natura dei fenomeni atomici» (p. 154). Dal punto di vista dell’oggettività verrebbe da chiedersi: chi ha ragione? Ma, ancora una volta, la domanda è priva di senso. Si tratta infatti di due descrizioni entrambe corrette, ciascuna all’interno del proprio ambito di applicabilità. Ciò significa rinunciare all’oggettività nel senso dell’oggettualità. Ovvero: c’è qualcosa, oggettivamente, ed è ciò che indaghiamo nell’ambito degli esperimenti (la realtà che del resto incontriamo quotidianamente). Ma di essa non possiamo dire niente oggettivamente: ogni cosa che ne diciamo ricade al di qua del linguaggio e delle forme di pensiero che utilizziamo per descriverla (e così farcene un’idea). La fisica è una visione del mondo. Affermazione tanto più vera quanto più ci si rende conto che all’interno della fisica esistono teorie tra loro incompatibili che pur sono verificate (ciascuna nel rispettivo ambito di applicabilità). La fisica costruisce modelli teorici dotati di un alto grado di misurabilità. Questo non rende la sua verità meno pregnante (infatti gli esperimenti sono certo ripetibili e i risultati verificabili) né rende la realtà meno oggettiva. Ma, per sintetizzare con l’espressione di Alfred Korzybski (citato in Capra [1975], p. 32), “la mappa non è il territorio”. La realtà non coincide con la nostra descrizione di essa. Ciò vale tanto per la metafisica quanto per la fisica, ed è il motivo per cui Heisenberg [1959] chiamava “pitture verbali” le affermazioni formulate matematicamente dalla fisica, «con le quali cerchiamo di rendere comprensibili a noi e agli altri le nostre esperienze sulla natura» (p. 65).
Accade dunque che, quando un fisico oltrepassi questa linea di demarcazione tra l’immagine e la cosa, egli possa assumere quel tono “messianico” di cui si è detto, dando così l’impressione, in chi non è specialista, di star ascoltando qualcuno che parla in virtù di un’investitura superiore (la forza dell’incontrovertibilità dell’esperimento). E invece la distinzione è molto chiara, e la troviamo ricapitolata nella bella espressione che Einstein usa in una lettera a Schrödinger del 1935 (Allori, Dorato, Laudisa, Zanghì [2006], p. 13): «La vera difficoltà sta nel fatto che la fisica è un tipo di metafisica; la fisica descrive “la realtà”. Ma noi non sappiamo cosa sia “la realtà”, se non attraverso la descrizione fisica che ne diamo».
Confucio ammoniva i propri contemporanei sull’importanza di utilizzare ogni parola nel suo significato corretto. Molti anni dopo Heisenberg metteva in guardia i propri contemporanei dai rischi insiti nell’inevitabile utilizzo di termini classici (materia, forza, causa ed effetto, ecc.) a proposito di realtà che, in seguito all’introduzione della meccanica quantistica, si mostravano molto diverse da quelle che ci si era immaginati.
Sul linguaggio si basa il pensiero, e sul pensiero si basa l’immagine che ci facciamo della realtà, quella di tutti i giorni come quella che ci si presenta al termine di un esperimento di laboratorio. Per questo motivo, riprendendo l’auspicio del prof. De Martini che venga curata opportunamente la formazione scientifica degli studenti universitari di filosofia, anch’io auspico che possa esser sempre meglio curata la formazione filosofica degli studenti universitari di fisica, affinché tale formazione li introduca con maggiore consapevolezza nei meandri della soggettiva oggettività della realtà e dello sdrucciolevole linguaggio che utilizziamo per descriverla.
BIBLIOGRAFIA
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(sito internet dell’AFT, Associazione Filosofica Trevigiana, maggio 2007)
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