giovedì 16 aprile 2009

Due personaggi in cerca d’alture

Ritirato tra le montagne della sua Catalogna natale, Raimon Panikkar è, all’età di ottant’anni, uno dei più grandi teologi cristiani di quest’inizio di millennio. Jordi Savall, che nutre per Panikkar una profonda ammirazione, ha voluto intrattenersi con lui circa i rapporti tra la filosofia e la musica.

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S.: Lei ha una straordinaria visione della funzione della musica. Mi ricordo dell’incontro nella chiesa di Santa Maria del Mar, l'anno scorso. Lei cominciò citando Platone, i filosofi, la Musica e la Parola, situando la musica nel cuore stesso della realtà, e stabilendo dei legami con gli Antichi. Mi piacerebbe che ne parlasse nuovamente. Io credo che spesso noialtri musicisti e coloro che amano la musica non abbiamo sufficiente consapevolezza della sua dimensione straordinaria, e non ne vediamo che l’aspetto estetico, brillante, ludico, correndo il rischio di dimenticarne la dimensione spirituale ed i suoi legami con la storia dell’umanità.
P.: Potrei cominciare dal versante negativo, parlando della barbarie della specializzazione, un virus che risale al Nominalismo o è addirittura precedente; è una credenza secondo la quale per conoscere il tutto è sufficiente conoscerne le singole parti, e secondo la quale per conoscere dobbiamo necessariamente specializzarci in qualche ambito. Così comincia la frammentazione della conoscenza che conduce alla schizofrenia del conoscente. Al giorno d’oggi, abbiamo smarrito il metodo stesso, ovvero, il cammino della conoscenza della realtà. La realtà è un tutto, e noi vogliamo dividerlo. Noi cadiamo negli errori della specializzazione e diciamo: “questo è l’ambito della scienza, questo dell’arte, questo della filosofia, ecc.” Noi siamo esperti in una sola materia, e non sappiamo parlare d’altro... Quando vogliamo conoscere il tutto, noi estrapoliamo e ci inganniamo. Poi ci disperiamo di saperne oggi giorno di più sul sempre meno. L'integrale delle conoscenze parziali non corrisponde alla realtà. La realtà non è uguale alla somma delle sue parti. All’inizio la musica era una rivelazione del Tutto. Presso i Greci, l'educazione consisteva nella ginnastica e nella musica. La ginnastica era la cultura del corpo e la musica quella dello spirito. In seguito, esse s’unirono a formare la danza. La danza coinvolge il corpo, anzi di più: la danza è la sintesi del corpo e dell’anima, cioè lo spirito. Noi dobbiamo superare la nostra antropologia dualista: anima e corpo. Dagli Ebrei ai Cristiani (che però in seguito l’hanno dimenticato), dagli inizi della Grecia preplatonica, l'antropologia è tripartita: corpo, anima e spirito... E la musica è ciò che unisce tutte e tre le parti, e perciò essa è Musa; essa ci mette in comunicazione con la realtà tutta, e la realtà è divina. Noi, in Occidente, abbiamo una tale paura del panteismo, che abbiamo paura di pensare che la realtà sia divina. Ma, per tornare alla musica, Boezio ci parla di tre musiche: la musica del mondo, la musica umana e la musica strumentale. La musica del mondo è la musica cosmica, è la musica della realtà tutta, è la sonorità della sistole e diastole dell’universo, il respiro della realtà. Non la si può ascoltare se non partecipandovi. La musica non è una tecnica dei suoni, se si intende il suono come qualcosa di più che una vibrazione. Vorrei farvi parte d’una intuizione difficile da spiegare, ma che posso tradurre così: la musica, ancorché temporale, trascende il tempo. La musica ha a che fare con il tempo, ma la suddivisione non appartiene alla musica, la melodia non è musica se non quando la si suona... la musica esiste quando la si fa, essa vive quando la si suona, la si canta, la si danza, e tutto ciò coinvolge il tempo. La musica si dipana nel tempo.

S.: Essa esiste e smette di esistere...
P.: ...e nello stesso tempo si ferma. Nella musica il tempo si ferma, ma non smette di essere tempo.

S.: Perché la memoria ne resta impregnata.
P.: Più che la memoria, perché essa impregna tutto il nostro essere , che è ritmo. La musica ci fa vivere la tempiternità, che non appartiene né al tempo, da un lato, né all’eternità, dall’altro. L'eternità non può venire dopo il tempo. L'eternità è l’altra faccia del tempo e la musica ci apre all’esperienza di questa non-dualità tra tempo ed eternità. La musica non serve a niente, perché essa è al di sopra di ogni servitù. Essa è fatta per essere vissuta, perché se ne partecipi in maniera attiva, la si comprenda tramite l’ascolto, e più ancora tramite l’esecuzione. Attraverso la musica noi partecipiamo del ritmo della realtà stessa, e di conseguenza realizziamo noi stessi. Parlando della specializzazione, volevo dire che noi dividiamo, racchiudendo le cose in compartimenti stagni, e poi ci domandiamo a cosa serva tutto ciò. In realtà, se non la viviamo in tutta la sua integrità in pura estasi incosciente, la musica ci sfugge. Ed aggiungerei che siamo tutti musicisti.

S.: La musica si trova nell’espressione stessa dell’essere umano…
P.: ...in tutte!

S.: Il senso della parola, a seconda di come la si canta, sarà positivo o negativo, e tutta l’affezione che le si potrà trasmettere dipenderà dal modo di cantarla.
P.: Certamente. Ciascuna lingua ha la sua musica, e ciascuna parola ha la sua musicalità... come nel bell’esempio delle madri africane, che insegnano ai loro bambini a cantare ancor prima d’aver insegnato loro a parlare... Inoltre, il bambino comprende la musica prima di comprendere il senso delle parole. Ho detto “insegnare” nel senso etimologico della parola: le madri semplicemente cantano ai loro bambini.

S.: Si tratta di un punto essenziale, un tema fondamentale: è il modo di cantare che ci definisce.
P.: È il tono, è la musica che fa nascere la parola ed essa non avrà senso finché non ne avremo scoperta l’armonia. La radice della parola “armonia” significa: “ciò che ricongiunge le cose nel loro ordine”, in modo armonioso, appunto. La parola inglese e tedesca “arm” proviene dalla stessa radice.

S.: Si potrebbe dire che l’essere diviene umano in primo luogo attraverso la musica.
P.: Pienamente umano, sì.

S.: Perché la musica è la prima cosa ad essere compresa, prima del senso delle parole.
P.: Sì, ma che significa “comprendere”? Si tratta di partecipare intenzionalmente (la parola stessa lo dice) nella forma piena del vivere. La musica non è una specialità, essa non è patrimonio dei musicisti. La grande musica, la si ascolta. La musica delle sfere di cui ci parla Pitagora, è la musica che conduce a scoprire l’armonia delle cose. Si è attribuita a Pitagora la scoperta del fatto che si poteva esprimere e tradurre la musica in numeri, ma la musica è precedente alla struttura matematica, alla sua formulazione numerica, ed anche alle proporzioni. È il cuore che scopre la proporzione, anche se in seguito lo spirito (mens) la calcola. Se si comincia a contare, si è già perduti. Non si tratta di contare, ma di lasciarsi trasportare.

S.: Ma i numeri scaturiscono dal fatto che vi è un’armonia, un equilibrio...
P.: L'equilibrio è là, lo sento, e non ho bisogno d’alcun numero. Ma è vero, io scopro che vi è un rapporto numerico e che esso permette di comprendere e di scrivere meglio la musica. Come la dimensione di una cattedrale, che racchiude una pace, un equilibrio all’interno delle sue forme, l’altezza e la luce... È il grande segreto delle piramidi. Ma ritorniamo al simbolismo della musica delle sfere: in fondo la musica è fatta per essere ascoltata. La musica non si fa, si ascolta, anche da parte di colui che la suona e la fa. È nell’ascolto che la si può vivere.

S.: Lei si ritrova così a quel punto della filosofia zen, del tiro con l’arco, nel quale il gesto tanto armonioso ed allenato fa sì che senza sforzo la freccia raggiunga il bersaglio, semplicemente lasciandola andare... È quello l’obiettivo ultimo dell’atto artistico.
P.: Certamente, l'atto libero è spontaneo. Io credo che da parecchi secoli noi siamo schiavi della volontà. Sembra paradossale. Schiavi della volontà! E noi crediamo di poter fare tutto tramite la volontà, ma le cose non si fanno affrontandole. Spesso ci manca la dimensione femminile, più passiva, che consiste nel ricevere, nell’ascoltare; in latino, ascoltare ed obbedire vanno insieme. Ascoltare e ricevere il dono che ci viene dato. Io, che non so usare altro strumento che la penna, dico: “lo Spirito Santo è colui che mi ispira, ma se non mi trova con la penna in mano, non ne verrà fuori niente... e perché la penna sia nella mano, servono la disciplina, la penna, la mano e la carta davanti a sé”.

S.: Ciò implica anche una fiducia, un’apertura e parecchia pazienza.
P.: “Tramite la vostra pazienza possiederete le vostre anime” dice il Vangelo. Quando parlo del carattere diabolico della scienza moderna, mi riferisco all’interpretazione falsa (diabolein) della nostra esperienza della realtà. Non è stato invano che la prima grande invenzione di uno dei suoi fondatori sia stata l’accelerazione; e noi viviamo in un mondo accelerato, che è il mondo meccanico. Io posso accelerare le macchine, posso andare in qualche ora a New York, ma non posso accelerare né la vita né la realtà. Noi abbiamo perduto i ritmi cosmici, ed il ritmo cosmico è la musica. Essere sensibili al ritmo cosmico è ciò che ci permette di gioire della vita, e di vivere ogni momento in tutta la sua pienezza.

S: La perfezione può essere un mezzo, ma non è indispensabile. Il bambino che si addormenta al canto di sua madre non chiede la perfezione.
P.: Pienezza non vuol dire perfezione. Un disco perfetto può non contenere né risvegliare alcuna emozione. Noi viviamo talmente in un modo d’oggettività che vogliamo rendere oggettiva anche la musica!

S.: Il canto della madre è un atto d’amore, un atto educativo, un atto medico...
P.: È tutto ciò allo stesso tempo! L'intenzione con cui son fatte le cose influenza le cose e modifica la cosa stessa che viene fatta. C’è un esempio, che voglio proporre con prudenza, perché potrebbe essere interpretato in termini di fanatismo o esclusivismo, ma ciò che mi interessa è ciò che vi è sottinteso. Un saggio ebreo, il grande rabbino Akiba, vietò ai fedeli e agli ebrei di leggere la Torah o il Pentateuco copiato da un infedele. Colui che scrive fa parte dello scritto. Se una cosa è fatta con amore, essa sarà diversa dalla medesima cosa fatta con rabbia o per soldi. E ciò riguarda tutti gli ambiti, poiché oggi noi facciamo meccanicamente migliaia di cose senza importanza.

S.: Può esistere un’opera che sia buona per noi nonostante il suo autore sia un assassino? La musica e il nazismo, i campi di concentramento, il caso di Gesualdo...
P.: Credo che si tratti di un problema molto importante e delicato. Vorrei fare qualche distinzione. Ho già parlato della deformazione generale della nostra epoca, l'oggettivazione ; ma un’altra sarebbe la soggettivazione . Aggiungerei ancora che noi siamo troppo abituati al pensiero causale. Il pensiero causale frantuma la libertà e riduce tutto ad una struttura deterministica della realtà – malgrado i “gradi di libertà” della fisica contemporanea. La relazione, per contro, non è necessariamente causale. È una correlazione che può essere armonica o disarmonica, ma non è affatto necessario che sia di causa-effetto. In questa correlazione, l’ascoltatore gioca un ruolo molto attivo. La musica può essere criminale, ma qui siamo in due: te che la fai e me che l’ascolto. Ed io posso essere in grado di assorbire questa forza malvagia e di trasformarla. Allora si comprende che non vi è relazione di causa-effetto, ma che si può trasformare la cattiveria della gente, delle cose e degli eventi.

S.: È vero che esiste della musica che genera una gran pace, per se stessa!
P.: Se la si è... voglio dire: se essa risuona in noi. La musica è relazione, come tutto nella realtà...

S.: ...e dell’altra che induce uno stato d’animo negativo, inquieto, sgradevole.
P.: Talvolta, ho provato a trasformare una musica che non mi piaceva... cercandone il suo lato buono, avendo compassione per il suo autore, e là ho potuto dominare il male che mi faceva, nonostante essa non mi piacesse. Dunque io non oso parlare di musica buona o cattiva; soltanto in modo oggettivo.

S.: Trovare questa connessione da parte del musicista, tra colui che è un artista che accetta il suo dono e ne è cosciente, e nello stesso tempo è l’artista della sua vita... che fa un’arte della sua vita, come Lei dice.
P.: Ciascuno di noi deve costruire una filigrana d'opera d’arte, a partire da quel dono che abbiamo ricevuto e che è il nostro essere... Se l’ego è presente, allora vi è dell’egoismo. Se per me fare della musica non è una manifestazione spontanea e libera del mio essere, è artificiale, è qualcosa di tecnologico. Ciò non è arte. Se esiste di già un disco con la sinfonia perfetta, perché rifarla? Ma allorché la mia azione non è altro che l’espressione del mio essere, allora non vi è ripetizione, ma creazione. Posso io essere un buon artista ed un cattivo cittadino, una cattiva persona? Al di là di certe sfumature che sono qui fuori luogo, tendo a dire di no. Si tratta di due cose che non possono essere separate. Un gong, se ben forgiato, rende sempre un tono armonico, e risponde armonicamente ad ogni colpo che riceve, sia esso dato con rabbia o con delicatezza. Allo stesso modo, se il gong che noi siamo non risponde armonicamente ai colpi della vita, dubito che alla lunga possiamo essere dei veri musicisti nel senso integrale di cui stiamo parlando. È molto bello parlare di musica e di spiritualità, ma se io non la vivo in maniera tale che la musica sia una parte di questa spiritualità e la spiritualità una parte di questa vita, allora c’è qualcosa che non va in me... forse ne verrà fuori una musica oggettivamente migliore, ma senz’anima non vi è opera d’arte. Perciò la musica è una così grande disciplina, e la vita è il gran maestro, è lei che ci insegna il senso profondo delle cose. Se noi non vogliamo essere altro che dei grandi musicisti, non comunicheremo mai la vita.

S.: La musica coinvolge una vita interiore. Senza questa vita interiore, non si può immaginare una dimensione, un suono.
P.: Ogni concerto, come ogni atto liturgico, deve essere un fine a se stesso, è un’esperienza sempiterna.

S.: Il concerto non è uno spettacolo, è un vissuto, ed il disco ne è il ricordo.
P.: Ma esso non sostituisce il vissuto, perché il vissuto è unico, è l’atto di comunione che richiede la presenza fisica, che implica una partecipazione reale, e questo noi l’abbiamo perduto... Il grande male è l’egoismo! Se noi eliminiamo l’ego, siamo liberi...

Dialogo ripreso da Jordi Savall, con la collaborazione di Montserrat Figueras © Classica 2000
originale visibile in internet all’indirizzo http://www.abeilleinfo.com/dossiers/clasav.php?nomdossier=clasav&rg=5


(sito internet dell’AEF, Associazione Ecofilosofica di Treviso, 2008)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano