giovedì 16 aprile 2009
G. Cognetti, La pace è un’utopia?, ed. Rubbettino, 2006
È lodevole ed opportuno l’intento di Cognetti di parlare di pace nella prospettiva di Raimon Panikkar. Opportuno perché tale prospettiva consente di cogliere quanto concrete siano oggi non solo le esigenze ma anche e soprattutto le possibilità di una pace umana e planetaria, e quanto illusorio e utopico sia invece il tentativo di stabilire con le armi una “pace duratura”. Lodevole perché il libro, dedicato ai suoi studenti, e proposto come testo di studio per l’esame di filosofia comparata delle religioni (di cui Cognetti è docente presso l’università di Siena), contribuisce a parlare di un autore come Panikkar, appunto, ancora poco conosciuto in Italia (nonostante il gran numero di pubblicazioni disponibili e l’assegnazione del premio Nonino “a un maestro del nostro tempo”, avvenuta nel 2001).
Il libro si articola in 3 capitoli, incorniciati da un’introduzione e una conclusione, ed è chiuso da un’appendice. La struttura è sequenziale: si parte dal fondamento teoretico della possibilità della pace, che Cognetti individua nel pluralismo di Panikkar, si passa per il disarmo culturale come precondizione per un dialogo interculturale genuino e fruttuoso, e si giunge infine al dialogo vero e proprio come luogo della pace. Nella conclusione, intitolata “Prospettive di pace”, Cognetti esamina le concrete possibilità della pace oggi, e ne conclude che «oggi una metanoia radicale non è un’utopia perché è l’unica strada realistica per il futuro dell’umanità». In tutto il testo Cognetti, che attinge certamente a Panikkar ma anche a Jung, alle saggezze orientali, al Vangelo e alla mistica medievale, sottolinea che la pace reale non è una mera questione di organizzazione politica e sociale, ma un processo profondo che investe la società a partire dalla maturazione personale dei suoi membri. In appendice Cognetti mostra come la nostra attuale idea di pace affondi le radici nel pensiero e nella lingua ebraici, e ne segue il filo attraverso l’antichità classica e il medioevo fino ad approdare alla Pacem in terris di Giovanni XXIII.
Alla luce della destinazione eminentemente didattica del libro, è maggiormente comprensibile la quasi totale assenza di un apparato critico relativo alle frequenti citazioni, sovente letterali, di Panikkar che Cognetti fa, o l’introduzione di termini che Panikkar usa in senso tecnico (come «nuova innocenza» o «macchina di secondo grado») senza la definizione degli stessi. Va anche evidenziato che nel testo compaiono spesso le espressioni «non-dualistico» (con il trattino) e «non duale» (senza il trattino); il perché di questa differenza non viene spiegato.
A fronte di queste imprecisioni più o meno importanti, Cognetti offre spunti di riflessione di un certo peso: quando ad esempio sottolinea l’ontonomia della pace (pp. 76 ss.) e l’impossibilità di appiattirla sul piano politico o su quello religioso, come se si trattasse di un semplice epifenomeno dell’una o dell’altra; oppure quando caratterizza la pace come qualcosa di dinamico, come un equilibrio tra parti vitali di un tutto in movimento, contro la classica visione statica e sconfortante della pace come assenza di guerra (pp. 74 ss.). A tratti il libro offre suggestioni di ampio respiro: come quando, a p. 36, ci dice che per millenni l’Occidente si è chiesto “Cos’è l’uomo” e l’Oriente si è chiesto invece “Chi sono io?”, mentre oggi, nell’epoca dell’incontro e del dialogo, la domanda andrebbe così riformulata: “Chi sei tu?”; o come quando la critica giunge fino al limite estremo di criticare se stessa: «L’importante, in ogni caso, per garantire il pluralismo, è non erigere mai assoluti: se la stessa non violenza diventa un principio eterno, immutabile e rigido può convertirsi nel suo opposto» (p. 42).
Sui temi della pace, del dialogo e del disarmo culturale Cognetti è molto chiaro ed il suo discorso si segue in maniera fluida e gradevole. Purtroppo il primo capitolo del libro (“Pace e pluralismo”) non ha lo stesso pregio; un po’ per il carattere inevitabilmente più teoretico e meno discorsivo della materia, un po’ perché il pensiero di Panikkar sul pluralismo non è facile da condensare in un libro di queste dimensioni (per di più centrato su di un tema diverso), la trattazione si presenta caotica, difficile da seguire se non si è già addentro alla questione, talvolta addirittura ambigua. Va premesso che, a ben vedere, gli ingredienti indispensabili ci sono tutti, e che chi conosce Panikkar è certamente in grado, a partire da quanto è scritto, di rimettere ogni tassello al suo posto; in questo senso il capitolo non è né lacunoso né scorretto. Tuttavia il libro – nel presupporre già una certa conoscenza del pensiero di Panikkar – sembra negare la sua premessa, che è quella di offrire una presentazione del pluralismo fruibile da chi si accosta a Panikkar per la prima volta, o comunque non ha avuto modo di approfondirlo in precedenza (cioè gli studenti).
Un esempio di espressione fuorviante è quello della nota 20, p. 51, dove Cognetti – nell’illustrare il pluralismo religioso – parla (citando) di una sostanza con molte qualità che diventa multiforme attraverso la conoscenza dei diversi sensi. Ora, questa raffigurazione è ciò che Panikkar ha criticato spesso e duramente utilizzando i concetti di criptokantismo (cfr. ad esempio R. Panikkar, “Politica e interculturalità” in R. Panikkar ed al., Reinventare la politica, l’altrapagina, Città di Castello (PG), 1995, pp. 3-30) e di pars pro toto (cfr. ad esempio R. Panikkar, Saggezza stile di vita, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI), 1993, pp. 108 ss.). Pluralismo infatti non vuol dire frammentazione dell’accesso alla realtà (cioè che ognuno prende della realtà quello che può, come sembra trasparire dall’esempio dei sensi), ottenendo così una verità parziale; pluralismo vuol dire comprendere che la verità dell’incontro con la realtà include anche colui che la incontra, attraverso il proprio mito. L’esempio quindi può indurre ad un grosso fraintendimento (e, soprattutto, a non cogliere l’originalità e la portata del pensiero di Panikkar).
Ambigua sembra anche l’espressione di p. 42: «Perché d’ora in poi nessuno più creda di possedere la religione vera, la scienza vera». Così formulata, purtroppo, questa affermazione rischia di aprire le porte al relativismo, che Panikkar ha tanto strenuamente combattuto in tutte le sue opere. Pluralismo non vuol dire affatto che nessuno ha la verità; al contrario, vuol dire che ciascuno può accedere genuinamente alla verità, nell’ambito del proprio mito, che non necessariamente è quello dell’altro. Pluralismo non vuol dire rinuncia alla verità. Pluralismo non è premettere “secondo noi” alle proprie affermazioni (pp. 32-33, nota 4): questa è la prassi della nostra società dualistica, dove le diverse e parimenti legittime opinioni si scontrano nell’arena “democratica” per la conquista della supremazia. Pluralismo non significa rinunciare alla propria verità in favore di un’opinione, al fine di far posto all’altro. Pluralismo significa che io ho ragione e che anche tu hai ragione: ciò che per il monismo ed il dualismo è logicamente impossibile, ma che il pluralismo incorpora attraverso la diversità dei miti e delle prospettive. (Ciò che in qualche modo Cognetti rileva a p. 124; tuttavia si tratta di un riconoscimento un po’ tardivo, che non giova ai fini della comprensione).
A margine va notato che la debolezza del capitolo rispecchia quella della bibliografia: a fronte di tutti i testi di Panikkar fondamentali per il tema della pace, mancano completamente i testi fondamentali per la trattazione del pluralismo: Mito fede ed ermeneutica, La realtà cosmoteandrica, Il silenzio di Dio, Reinventare la politica.
D’altro canto, il libro di Cognetti è molto attento al tempo presente; i suoi esempi sono sempre tratti da casi di attualità, quando non addirittura di cronaca: si parla dei PACS, delle coppie di fatto, delle elezioni palestinesi, dell’economia globale. Il suo tentativo è sempre quello di uscire fuori dal luogo comune e di considerare le questioni in tutta la loro ampiezza: così la pace è, certo, esteriore e legata all’organizzazione dei rapporti reciproci, ma anche personale e legata ad un percorso di maturazione interiore che fa dell’uomo, e non della politica, il fondamento.
In definitiva, questo libro mostra con sufficiente chiarezza che la pace è tutt’altro che utopia e che la guerra, con la sua pretesa di imporre la pace agli altri alle proprie condizioni, nonostante tutta l’evidenza del fallimento degli ultimi seimila anni di storia dell’umanità, è invece la vera utopia. Non sono i cosiddetti “pacifisti” a dover rendere conto delle loro aspirazioni, ma coloro che sono disposti a produrre, vendere e usare armi per uccidere e imporre la pace a dover rendere conto della cosiddetta “razionalità” dei loro metodi. Se si intende l’utopia nella comune accezione di “irrealizzabile”, allora la pace non lo è, perché essa non è irrealizzabile, anzi. Essa tuttavia ha un costo, che è quello di rinunciare alla nostra “sicurezza nazionale” basata sulle armi atomiche, ai nostri privilegi (è noto che se ogni uomo consumasse quanto uno statunitense sarebbe necessario disporre di 6 pianeti come la terra), al nostro irrefrenabile desiderio che gli altri siano uguali a noi. Si tratta di una prospettiva ancora minoritaria, che il libro di Cognetti ha il merito di contribuire a diffondere. E bene direbbe Isocrate, a questo proposito, che «è cosa grande, in mezzo alla generale ingiustizia e follia, essere i primi a rinsavire».
(sito internet dell’AFT, Associazione Filosofica Trevigiana, ottobre 2006)
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