sabato 13 aprile 2019

Ammore e malavita. Innovazione e tradizione nel cinema dei Manetti Bros.

Che cos’è Ammore e malavita dei Manetti Bros.? Una commedia, una parodia, una sceneggiata à la Merola, un musical? Da qualunque prospettiva si voglia guardarlo, il film resta un tentativo – il primo, a quanto ci consta – di riportare il noir napoletano nel solco della tradizione. Dopo Gomorra – il film e soprattutto la serie – l’estetica del crime napoletano sembrava infatti segnata per sempre dall’esigenza di un iperrealismo che finisce per irrigidirsi ed essere sempre uguale a se stesso, pur nella sua encomiabile scelta di fondo, nonché nel risultato; ma tale da soffocare ogni spazio creativo. I Manetti, invece, riprendono la formula del noir partenopeo dei padri contemporanei del genere, a partire da Veraldi: le due “tigri” sulla motocicletta non ricordano forse i killer del “consorzio” che imperversavano su due ruote in tangenziale muniti di uncino con il quale arpionavano le loro vittime? Riuscendo così a riportare il colore dove ormai non si vedeva più che grigio; armonia (anche grazie all’invasiva e per la verità non sempre azzeccata presenza della colonna sonora) dove non c’era che desolazione; e di autentico thrilling, finalmente, troppo spesso rimpiazzato dal raccapriccio.
Come hanno fatto? Liberandosi, in primo luogo, dalla dittatura dei “fatti” (dei quali mostrano che si può fare egregiamente a meno: o siamo ancora ai discorsi del cinema come cronaca?), sgomberando il campo dal vecchio imperativo del di’-le-cose-come-stanno (che molto spesso è il modo migliore per distruggere l’arte) e, successivamente, da quella dei clichè, di cui si servono solo per irriderli, come nella scena finale del funerale smascherato. Così facendo, i registi consegnano un film ricco di pathos – come nell’assalto all’imbarcazione da parte di un Ciro bardato di attrezzature sofisticatissime che richiamano James Bond (peraltro citato) – strizzando l’occhio al cinema americano degli ’80 (presente nel modellino della DeLorean di Ritorno al futuro; ma ancor di più alla preparazione dei killer che sembrano ninja addestrati come il Batman di Nolan); e che fa sorridere al momento giusto senza spezzare il ritmo (come nella clamorosa battuta finale sugli spaghetti al pomodoro): con una formula che i Manetti hanno già ampiamente collaudato in Coliandro, ma che – tornare per un attimo al discorso sulla tradizione – è tipica di pellicole come Operazione San Gennaro.
Dopo averlo visto in TV, oltre che al cinema, sappiamo che Ammore e malavita non ha perso il suo smalto. Passerà l’ondata (benemerita, come dicevamo) dei tanti Suburra, Gomorra & C. e questo film resterà: come punto di rottura, come recupero di una tradizione narrativa e filmica che Napoli ha a lungo coltivato e che il successo della fiction ha soltanto messo in ombra. E vuol dire, parafrasando il protagonista, che anche questa volta i Manetti non hanno sbagliato un colpo.

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano