Come hanno fatto? Liberandosi, in primo luogo, dalla dittatura dei “fatti” (dei quali mostrano che si può fare egregiamente a meno: o siamo ancora ai discorsi del cinema come cronaca?), sgomberando il campo dal vecchio imperativo del di’-le-cose-come-stanno (che molto spesso è il modo migliore per distruggere l’arte) e, successivamente, da quella dei clichè, di cui si servono solo per irriderli, come nella scena finale del funerale smascherato. Così facendo, i registi consegnano un film ricco di pathos – come nell’assalto all’imbarcazione da parte di un Ciro bardato di attrezzature sofisticatissime che richiamano James Bond (peraltro citato) – strizzando l’occhio al cinema americano degli ’80 (presente nel modellino della DeLorean di Ritorno al futuro; ma ancor di più alla preparazione dei killer che sembrano ninja addestrati come il Batman di Nolan); e che fa sorridere al momento giusto senza spezzare il ritmo (come nella clamorosa battuta finale sugli spaghetti al pomodoro): con una formula che i Manetti hanno già ampiamente collaudato in Coliandro, ma che – tornare per un attimo al discorso sulla tradizione – è tipica di pellicole come Operazione San Gennaro.
Dopo averlo visto in TV, oltre che al cinema, sappiamo che Ammore e malavita non ha perso il suo smalto. Passerà l’ondata (benemerita, come dicevamo) dei tanti Suburra, Gomorra & C. e questo film resterà: come punto di rottura, come recupero di una tradizione narrativa e filmica che Napoli ha a lungo coltivato e che il successo della fiction ha soltanto messo in ombra. E vuol dire, parafrasando il protagonista, che anche questa volta i Manetti non hanno sbagliato un colpo.
