Le “zoccole” a Napoli ci sono sempre state, erano le prostitute che calzavano zoccoli rumorosi, tanto da essere udibili perché scarsamente visibili nel buio della notte. Il termine riecheggia quello usato per le pantegane che anch’esse a frotte, ai tempi del malgoverno spagnolo, infestavano le strade. È del sedicesimo secolo, invece, la prima testimonianza degli “scarrafoni”: uomini dediti alla criminalità in maniera organizzata assimilati, dallo stesso vocabolo utilizzato, ai comuni scarafaggi; Miguel de Cervantes li immortala, per la prima volta nella storia della letteratura, nella sua novella Rinconete e Cortadillo. Poi i “cafardi”, che hanno solo pochi decenni: la lingua ha italianizzato il francese cafard (anch’esso, guarda un po’, per “scarafaggio”) per additare, complice l’assonanza lessicale, i cafoni, in particolare coloro che - arricchitisi in tempi recentissimi e sovente senza meriti, se non quelli da casellario giudiziale - menano vanto della loro mancanza di gusto, ostentata in un sovraccarico di abiti e ornamenti firmati al punto da sembrare vetrine ambulanti, o circensi nel bel mezzo dell’esibizione. E che dire del diavolo? “Abita a Napoli. Se non l’avete notato è perché si moltiplica nell’occhio dei suoi abitanti, si nasconde dietro le gobbe, le gambe storte, gli arti meccanici”...
Farinielli e chiachielli, il munaciello e il Sileno (partendo dai testi di Benedetto Croce e Matilde Serao, Charles Dickens e Alexandre Dumas, Franz Kafka e Francesco Mastriani fino a Roberto De Simone e Renato De Falco): ce n’è per tutti i gusti in questo lavoro di Antonella Cilento, finalista al Premio Strega 2014 con Lisario o il piacere infinito delle donne e autrice di svariati titoli di saggistica e di narrativa, della quale abbiamo già avuto occasione di parlare http://www.mangialibri.com/autori/antonella-cilento. Il volume raccoglie le quasi duecento pagine uscite per anni su “Il Mattino”, quotidiano di Napoli con cui la Cilento collabora, diventando un libro divulgativo rivolto a tutti, che si legge con piacere (con meno piacere Maurizio de Giovanni lesse - e da lì scoppio la polemica, poco meno di tre anni fa - il riferimento agli “impiegati di banca, cui spesso [il diavolo] fa credere di essere scrittori” di pag. 91). D’altro canto, la mole dei riferimenti letterari, tanto nel testo quanto nella bibliografia (seguita da un indice dei nomi di otto pagine), rende Bestiario napoletano un’opera scientifica ed è anche per questo che sarebbe stato legittimo aspettarsi una maggiore cura nell’uso del dialetto che rappresenta Napoli, in questo libro come nell’immaginario collettivo, prima di ogni altra immagine o idea. In una pubblicazione che, appunto, basa tutta la propria costruzione sull’esame di singoli termini, si ritrova invece la solita casualità nell’ortografia (e, curiosamente, l’accento grave - ed errato - di “pèrete” al posto di quello - corretto - acuto: “pérete”) e un po’ di approssimazione nell’uso, ad esempio, dell’apostrofo al contrario (‘ invece che ’) a inizio parola. Deludente, in un’autrice e in un editore di questo calibro.
Antonella Cilento, Bestiario napoletano, ed. Laterza, 2015.
(«Mangialibri», 2 febbraio 2018)
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