
Domenico Starnone - napoletano classe ’43 - è stato insegnante e autore di parecchi volumi, dalla satira sulla vita scolastica alle tante opere di narrativa, molte con Feltrinelli, che gli hanno fruttato un notevole successo: il suo Denti, del 1994, è diventato un film di Gabriele Salvatores con Sergio Rubini - lo stesso attore che, quindici anni dopo, ha diretto L’uomo nero, sceneggiato insieme a Starnone, la cui storia parla di un capostazione che ambisce a diventare pittore ed è narrata in flashback dal figlio… proprio come in Via Gemito (senza tuttavia che il romanzo venga mai richiamato). Un libro interessante (per il grado di introspezione che mette in scena e il profluvio di dettagli dell’ambientazione e dell’esposizione, ciò che talvolta rende faticoso proseguire; fatica appesantita dall’assenza pressoché totale di ritmo, ciò che pare non essere proprio una preoccupazione dell’autore) che è stato in grado di aggiudicarsi il Premio Strega nel 2001, con ogni probabilità, più per la proprietà di linguaggio e la raffinatezza dello stile che per la capacità di catturare l’attenzione (che non è certo indispensabile; ma aiuta). Infine, se ci si cruccia in genere per il testo in dialetto scritto (da autori di spessore molto inferiore) in maniera banalmente onomatopeica, quando non del tutto casuale, qui il cruccio diventa sconcerto: perché dai grandi narratori - come dai grandi giornalisti - ci aspetteremmo una qualità ortografica superba, onde poter trarre insegnamento sulla lingua, unitamente al piacere della lettura; e invece qui troviamo un napoletano non sempre in linea con il dizionario. Trovare autori moderni di riferimento per questa lingua - o dialetto, che dire lo si voglia: la disputa è ancora aperta - si fa sempre più difficile.
Domenico Starnone, Via Gemito, ed. Feltrinelli, 2000.
(«Mangialibri», 18 dicembre 2017)
