domenica 31 dicembre 2017

Periferia e periferie. Intervista a Giuliano Santoro

Giuliano Santoro è giornalista. Scrive su Il Manifesto. Ha lavorato per diversi anni al settimanale Carta. Ha scritto diversi libri. Tra gli altri: “Su Due Piedi” (Rubbettino), reportage narrato di un mese di cammino per la Calabria, “Un Grillo Qualunque” (Castelvecchi), sul fenomeno del Movimento 5 Stelle e “Al Palo della Morte” (Alegre Quinto Tipo), ibrido non-fiction sull’omicidio di un migrante pakistano nel quartiere romano di Tor Pignattara.

Com’è la situazione attuale delle periferie romane?
È difficile generalizzare. Roma è una città enorme, ha una superficie che è grande sette volte quella di Milano. Soltanto il municipio di Ostia, di cui in questi giorni si fa un gran parlare, è grande quanto una città come Bologna. Per ottenere a un’area vasta tanto quanto quella di Roma bisogna sommare la superficie occupata da nove capitali europee: Vienna, Atene, Lisbona, Amsterdam, Berna, Parigi, Copenaghen, Bruxelles e Dublino. L’anomalia è che di fronte a tale vastità, Roma non è fino in fondo una metropoli. Non lo è proprio perché stiamo parlando di centro e periferie, e non di una città fatta da diversi centri: di una metropoli, appunto. Ritengo che la storia di Roma sia storia di periferie che assediano il centro e i quartieri del comando e che strappano diritti di cittadinanza. Adesso che questo meccanismo si è inceppato, la città intera è entrata in crisi. Si tratta di una metafora più generale della dislocazione spaziale del conflitto sociale, soprattutto da quando – con la dissoluzione della grande fabbrica e la produzione spalmata sul territorio – la posta in gioco delle lotte sono gli spazi di vita oltre che i tempi.
In che senso e in che modo le periferie di Roma sono diverse da quelle del resto d’Italia? In cosa invece vi assomigliano?
La storia di Roma è quella di una città che, fin dai tempi antichi ma ancor di più con l’unità d’Italia e il fascismo, nelle intenzioni delle sue classi dirigenti doveva rappresentare una vetrina, la messa in scena di una società pacificata. Ecco perché Quintino Sella chiese che a Roma non venissero costruiti grandi insediamenti industriali che portassero lo scandalo della lotta di classe nella capitale. Per lo stesso motivo tra gli urbanisti fascisti si discusse molto di cosa fare delle indecorose borgate che accerchiavano le mura storiche della neonata “Capitale dell’Impero”. Benito Mussolini era terrorizzato dalla grande città, la considerava (non a torto) un posto incontrollabile, che sfuggiva all’ossessione igienica e securitaria del regime. Per questo a quel periodo risalgono le leggi contro l’urbanesimo: chiunque fosse privo di un lavoro e di una casa regolare non aveva diritto di residenza. Una specie di legge Bossi-Fini ante litteram, rivolta però ai migranti interni. Walter Tocci, che fu vicesindaco ai tempi di Rutelli, citando Pier Paolo Pasolini ha scritto di recente che Roma è una città coloniale, perché come queste è cresciuta spontaneamente e in maniera improvvisa e disordinata. Fino agli anni Settanta ancora centinaia di migliaia di romani vivevano in baracche o edifici abusivi. Per dare casa a questo popolo dell’abisso vennero costruiti casermoni che fecero la fortuna dei palazzinari. In mezzo a questi non mancano progetti di per sé non disprezzabili, grandi edifici pensati come falansteri che invogliassero il senso di comunità e il mutuo aiuto. Penso al chilometro di cemento di Corviale, pensato quasi come una diga di case. O alle case popolari di Tor Sapienza, negli anni scorsi divenute tristemente famose per una rivolta contro i rifugiati. L’utopia è divenuta distopia perché questi progetti sono rimasti isolati, senza servizi, con pessima manutenzione. Non ha aiutato il Piano regolatore varato dalla giunta Veltroni, che ha assecondato gli appetiti edificatori e costruito quartieri satellite e scollegati dal cento.
Quanto è attenta l’amministrazione Raggi ai problemi delle periferie?
Ad una prima occhiata, la mappatura del voto che ha largamente premiato il Movimento 5 Stelle e condotto Virginia Raggi fino al Campidoglio è inequivoca: al ballottaggio Raggi non ha ottenuto la maggioranza soltanto nei due municipi centrali, vincendo largamente nei restanti 13. E dunque si disse che era la vittoria delle periferie, la vendetta dei margini. È bastato poco tempo, tuttavia, per rendersi conto che le periferie avevano consegnato la vittoria a qualcun altro, avevano delegato la loro vendetta. A beneficio di chi era stata sottoscritta questa delega in bianco? Non vorrei fare sociologia spicciola ma sono costretto a essere schematico e tagliare con l’accetta. Il Movimento 5 Stelle romano, quantomeno nella parte che ha conquistato le istituzioni fin dall’inizio, ha una composizione professionale fatta di piccola avvocatura. Virginia Raggi, il presidente del consiglio comunale Marcello De Vito, la stessa Roberta Lombardi, che adesso si candida alla Regione Lazio, prima di entrare in politica erano piccoli avvocati. E quando Raggi ha dovuto affrontare le prime difficoltà, fin da subito, si è rivolta all’avvocato Sammarco, presso il quale aveva svolto il suo praticantato legale. Dunque, la sede delle decisioni, seppure in maniera informale, scombiccherata, quasi clandestina, si è spostato ancora in uno studio col parquet e le lampade di design situato al centro della città. Sia ben chiaro: la sindaca non ha colpe di molti dei mali di Roma, ha ereditato una situazione disastrosa, per l’ex assessore Paolo Berdini Roma è addirittura una città già tecnicamente fallita. Ma al momento uno dei grandi limiti della sua amministrazione è proprio l’incapacità di dialogare con la galassia di soggetti che, al di fuori dei partiti, opera sul territorio romano. Sono soggetti che esistono da molto prima che il M5S esistesse e probabilmente gli sopravvivranno. Trattarli, come spesso la sindaca e la sua giunta fanno, con un misto di paternalismo e timore, non è affatto una buona idea. È dannoso prima che sbagliato.
Ecco, che ruolo ha la società civile?
Faccio un esempio: in questo momento a Roma circa diecimila persone vivono in palazzi occupati dai movimenti per il diritto all’abitare. È una forma di welfare parallelo e di sperimentazione urbanistica, che rigenera dal basso pezzi di città altrimenti lasciati all’abbandono o alla speculazione. Un fenomeno che incontra l’ostilità assoluta della politica. Soprattutto in una fase storica come questa, in tempi di ottusa esaltazione della “legalità” fine a se stessa, si finisce per disprezzare ciò che accade in basso. Quello delle case occupate è solo un caso. Le energie sociali che animano Roma e che costruiscono reti solidali nelle periferie sono moltissime e il loro ruolo risulta decisivo. Diceva Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista recentemente scomparso, che nel modello italiano di accoglienza dei migranti la parte fondamentale la giocano strutture informali, mutualistiche, non istituzionali. Chiunque pensi di ricostruire davvero questa città non può prescindere da questo mondo.
Spesso i termini “periferia” e “degrado” vengono usati come sinonimi. Cosa ne pensa?
L’emergenza degrado e la conseguente retorica del “decoro” (si badi bene: due parole che derivano dal vocabolario militare) sono parte del problema e non della soluzione. È negli Stati Uniti che questa ossessione per la sicurezza urbana ha prodotto mostri. Come ci insegnano gli analisti statunitensi, che hanno studiato queste cose anni prima di noi, i tutori del decoro troppo spesso si preoccupano di proteggere gli spazi privati e sterilizzare, neutralizzandoli, quelli pubblici. Il che finisce per ripercuotersi proprio contro i più poveri, ha l’effetto di colpire quelli che le periferie le abitano.
Quale rapporto c’è tra la vita delle periferie e la criminalità organizzata?
Secondo gli esperti, soltanto la ’ndrangheta è la prima azienda d’Italia per fatturato. A questa bisogna aggiungere la mafia e le altre forme di criminalità organizzata. Un tempo si diceva che queste fossero un “freno allo sviluppo”, ma è evidente che siamo davanti al fenomeno contrario. Le mafie sono l’innesco e l’acceleratore di un particolare tipo di sviluppo capitalistico, condotto senza vincoli sociali ed ambientali. Mi riferisco ovviamente all’enorme massa di capitali da ripulire, che non possono non arrivare nelle grandi città, anche a Roma. Le periferie diventano il luogo di reclutamento della manovalanza, il posto in cui insediare piazze di spaccio. Ormai da anni, ad esempio, il mercato è stato invaso dalla cocaina. Si è quasi persa la memoria del passato (nient’affatto remoto) la cocaina era la droga per i ricchi, degli yuppies degli anni Ottanta. Oggi la cocaina è una droga assolutamente trasversale. Walter Siti nel fondamentale romanzo “Il contagio” traccia una lunga striscia di cocaina per connettere i ghetti di periferia dal centro di Roma. È la metafora del rovesciamento della profezia pasoliniana sulle periferie romane: la borghesia ha assunto i tratti selvaggi del sottoproletariato e il cosiddetto “popolo” è divenuto ambizioso come la borghesia.
Come commentare i fatti di Ostia? Epifenomeno di una periferia alla deriva, o conseguenza ovvia di dinamiche che partono dal centro?
La roccaforte degli Spada, sul litorale romano, è il quartiere di Nuova Ostia, cioè l’area di Roma a più alta concentrazione di case popolari. Qui gli Spada si costruiscono legittimità e radicamento sociale gestendo le liste di accesso agli alloggi. È il lato oscuro del conflitto sociale, una forma perversa e malata di quello che i movimenti per il diritto all’abitare, di cui parlavo poc’anzi, fanno alla luce del sole. Si pensi alla famigerata teoria della Terra di Mezzo esternata da Massimo Carminati: un sodalizio pensato apposta per mettere in relazione la strada coi palazzi del potere, il basso coll’alto. Laddove c’è un vuoto di mobilitazione sociale, la criminalità si propone come fattore di regolazione, a Roma sempre più spesso in combutta con neofascisti, che hanno attitudine alla violenza ed entrature col potere.

(«l'Altrapagina», dicembre 2017)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano