lunedì 1 agosto 2016

La Carta di Algeri e il TPP. Intervista a Gianni Tognoni

Gianni Tognoni (Varese, 1941), di formazione filosofica e teologica, è medico e ricercatore in farmacologia. Esperto a livello internazionale di Epidemiologia clinica e comunitaria, ha pubblicato studi dal taglio a cavallo tra l’ambito medico e quello socioeconomico, accessibili anche ai non specialisti. È segretario del Tribunale Permanente dei popoli.

Che cos’è la Carta di Algeri, e perché è così importante per noi?
La Carta di Algeri è un documento approvato 40 anni fa, nel marzo del 1976, da un gruppo molto importante di giuristi ed economisti tra quelli che allora rappresentavano in particolare i movimenti di liberazione post-coloniale, concordi sul fatto che vi fosse una vistosa lacuna nel diritto internazionale dell’epoca, relativa all’autodeterminazione dei popoli. Come dire: la colonizzazione, formalmente, si era conclusa; ma le sue conseguenze continuavano a pesare su molte popolazioni. La situazione era al contempo promettente e preoccupante: da un lato infatti la vittoria del Vietnam sugli Stati Uniti offriva speranza; dall’altro, creava allarme lo stabilirsi in tutto il continente latinoamericano di dittature di stampo militar-industriale, spesso alimentate dagli stessi Stati Uniti che avevano fatto di quell’abbinamento un loro vessillo. In quel momento - dove sembrava di assistere per certi versi a una nuova forma di colonizzazione - la Carta di Algeri formula un’agenda dei temi da chiarire ai fini di una autodeterminazione dei popoli completa ed efficace. In questo senso, essa è una specie di rilettura e di modernizzazione di certe categorie tradizionali del diritto internazionale, che divenne in breve un punto di riferimento per quelle democrazie che sentivano il bisogno di trovare nuova linfa, rispetto a principi di diritto che sembravano obsoleti.
Che forza reale ha oggi, per noi, un documento come questo, che non ha valore di patto tra le nazioni? Se si può parlare di esperimento, diremmo più che è riuscito, o che è fallito?
La minaccia di trasformarsi nell’ennesimo inutile “pezzo di carta” è sempre stato lo spettro della Carta di Algeri, fin dall’inizio. Essa fortunatamente è riuscita a evitare il rischio, fungendo da ispirazione per quei movimenti politici che hanno poi portato Paesi come l’Argentina a raggiungere la democrazia. La sua forza è quella di tutti i documenti che definiscono la “sana amministrazione”: la coniugazione di principi di diritto con le lotte concrete dei popoli. Un esempio di “applicazione” è dato dal Tribunale dei Popoli, che si fa carico proprio di valutare le situazioni ad esso sottoposte alla luce di quei principi: e si sono avute diverse sentenze, una delle quali è il riconoscimento del popolo Polisario nell’ambito delle popolazioni del Sahara occidentale; un’altra è quella di Timor Est, che dopo una lunga battaglia è riuscita finalmente a definirsi come qualcosa d’altro che una “proprietà dell’Indonesia”. Il Tribunale dei Popoli ha permesso a molti movimenti politici di portare all’attenzione del dibattito pubblico internazionale dei problemi che altrimenti sarebbero rimasti confinati in ambito locale. Simbolo di una rivendicazione possibile che è ancora tutta in itinere: tenere alta la bandiera della partecipazione, e non rinunciare mai alla denuncia esplicita delle violazioni.
Soprattutto quelle esecrabili dei cosiddetti “crimini contro l’umanità”.
Certo, che - va ricordato - non vengono commessi solo in occasione delle guerre, ma spesso e volentieri anche in tempo di pace. Per essi non dovrebbe essere prevista né applicabile nessuna forma di impunità: che in primo luogo è intollerabile. Non dimentichiamo che a volte gli Stati “approfittano” proprio della pace ai loro confini, per dichiarare “nemico” tutto ciò che, all’interno, si oppone al governo. È stato il modus operandi classico in dittature come quelle dell’Argentina o dell’Uruguay; ma è qualcosa che non si può più accettare. Un caso classico - ahimè moderno - è quello della Corte penale internazionale, che escluderebbe per principio tutti i crimini commessi in nome di priorità economiche: tentativo evidente di capovolgere le gerarchie del buon senso elementare, che vorrebbe che le “priorità economiche” fossero al servizio dell’uomo, non viceversa.
La Carta di Algeri potrebbe essere usata proprio al fine di riportare questo giusto ordine nelle cose? Sembrerebbe tanto più indispensabile in questo momento presente di grande crisi della politica, sempre più soggetta ai dettami della finanza e sempre più prona ad accettare di sacrificarsi a mostri come il TTIP.
È anzi uno dei suoi primi obiettivi! Mettere in evidenza l’urgenza di riprendere da un punto di vista generale questi discorsi e farne il perno di tutti gli altri (scalzando dal fulcro, tanto per cominciare, proprio l’economia, che dovrebbe tornare a essere uno degli aspetti e non l’unico, né il principale). Per questo il Tribunale si è concentrato molto sul “caso messicano”, perché il Messico è diventato suo malgrado una sorta di laboratorio a cielo aperto nel quale si può osservare che fine fanno i diritti quando si impianta in un Paese una democrazia formale dove l’unica legge che conta realmente è quella dei soldi. Bisogna smetterla una volta per tutte - il TTIP ne è il caso più evidente e alla moda - di permettere che si facciano accordi commerciali e finanziari al di fuori di qualunque regola del diritto internazionale, dell’informazione, della partecipazione popolare.
Lelio Basso è stato un personaggio-chiave nella definizione della Carta di Algeri. Che ricordo può darcene?
Lelio era uno che aveva la rara virtù di riuscire a coniugare la formazione giuridica con l’impulso alla politica. Il suo punto fondamentale era quello di pensare la politica come qualcosa di ben oltre la mera amministrazione dell’esistente: per lui la politica dev’essere movimento in avanti, verso ciò che non-c’è-ancora, ma non per questo è impossibile. Anzi, spesso si tratta proprio di ciò che è auspicabile nella massima misura. Per lui la Storia era qualcosa da accompagnare con un movimento permanente di ricerca; era un grande entusiasta, non si scoraggiava mai, ed è riuscito a credere a cose in cui tutti disperavano. La Storia, molte volte, gli ha dato ragione. In ogni caso inorridirebbe di fronte all’idea dei politici come “amministratori”, soprattutto quando si tratti non di “amministrare”, ma di eseguire ordini dall’alto, come nel caso dell’Europa o dell’economia di cui si è parlato. Per lui la politica era uno sforzo stabile di trovare l’impossibile compromesso non solo fra tutte le forze esistenti e operanti, ma anche lo sbocco che permettesse lo sviluppo di tutte quelle forze insieme. Spesso si assiste invece al tentativo di sviluppare una sole di quelle, a detrimento di tutte le altre. Ed è noto che, al di là di qualsiasi vuota proclamazione, una diminuzione di uguaglianza sostanziale reca con sé una diminuzione di partecipazione democratica. E l’aumento della disuguaglianza cui assistiamo negli ultimi anni, viaggia proprio in questa direzione. È un po’ quello che succede nella sanità e che io, come medico, osservo direttamente: si sbandierano tanti programmi di innovazione; poi, guardandoli da vicino, si scopre - è il caso ad esempio delle malattie oncologiche, o cardiovascolari - che riguardano soltanto una parte della popolazione e non i 2 miliardi che ne avrebbero effettivamente bisogno. La Carta di Algeri, che Lelio Basso ha pensato e voluto dall’inizio, assume tutt’altra prospettiva: l’etica, se vuole chiamarsi tale, deve avere uno sguardo molto più ampio di così. La vita «in dignità», come recitano le nostre Costituzioni, non può essere appannaggio di una cerchia ristretta: il nostro mondo non può essere “globale” solo sulle questioni economiche, ma deve essere universale anche e soprattutto sulla questione dei diritti.
Abbiamo parlato prima del Tribunale permanente dei Popoli (TPP). Che cos’è? E che relazione ha con la Carta di Algeri?
È un organismo indipendente che ha un suo statuto funzionale, più che istituzionale, che recepisce le grandi intuizioni di Russell, di Sartre e, appunto, di Lelio Basso: prima fra tutte, quella per cui la Storia non ha bisogno che vengano emessi giudizi di colpevolezza su questo o su quello, ma che si dia la parola a coloro che non ce l’hanno, ma che hanno molto da dire. Fare in modo che la Storia, almeno in certa misura, non la scrivano solo gli “addetti ai lavori”, ma i popoli che l’hanno vissuta. È questo ideale di concretezza storica ad animare il Tribunale permanente dei Popoli e le tante sentenze emesse nei suoi quasi 40 anni di attività. E il suo statuto funzionale, di cui dicevamo, è proprio la Carta di Algeri, la “bussola”, per così dire, del suo operato.
Raimon Panikkar, filosofo particolarmente caro ai lettori di questo mensile, è stato membro del Tribunale dei Popoli. Ci può raccontare com’è iniziata questa avventura?
È molto semplice: Panikkar amava “costruire ponti”, tra i mondi, tra le culture, tra le persone. E il Tribunale, per lui, era un’opportunità in questo senso: un modo per “tradurre”, nella lingua del diritto, le esigenze e le rivendicazioni di popoli che non avevano altro modo di farsi ascoltare, facendo in modo che arrivassero alle orecchie di tutto il mondo.
(«l'Altrapagina», luglio 2016)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano