La voce dell’attore sul palcoscenico, al culmine dell’interpretazione. La voce del cantante al centro dell’opera, nel momento più alto dell’espressione musicale. La voce dell’indigeno che suona nuova - e parzialmente incomprensibile, nascosta, forse perfino inudibile - all’orecchio dell’esploratore che la incontri per la prima volta, cercando di indagarla. La voce, che è invariabilmente voce dell’uomo, si manifesta in maniera ogni volta diversa; e in maniera sempre differente viene percepita da chi la riceva, anche e soprattutto a seconda del motivo che ne decida l’ascolto: così l’antropologo ritrova nella pronuncia e nel lessico di un popolo il suo modo di essere precipuo e unico, così come il drammaturgo rinviene in quella dell’attore l’incarnazione di un’idea che fino a un attimo prima non era che parola su carta. La voce insomma come denominatore comune di una trasmissione di significati; ma anche e soprattutto mezzo per veicolare ciò che, più di ogni altra cosa, è difficile da percepire e da esprimere: l’ineffabile, ciò che non si vede, eppure c’è, e che sovente è irrintracciabile tanto nel concetto quanto nell’immagine, preferendo stabilire la sua sede nel più sottile dei percepibili: il suono...
Sabina Meyer, cantante e musicologa laureata a pieni voti al DAMS di Bologna (oltre che scrittrice e songwriter), che unisce alla sua attività concertistica l’insegnamento in diversi conservatori italiani, scrive un saggio dal carattere metafisico, il cui protagonista è l’ineffabile e nel quale la voce si mostra quale mezzo per l’espressione dell’inesprimibile. In maniera originale audace, che non teme di sfidare il tabù dello sciamanesimo (fenomeno spesso tenuto a margine degli studi che non siano di mera antropologia, o di quelli essenzialmente ispirati a Castaneda), l’autrice affronta il nodo teoretico di come la realtà preferisca talvolta mostrarsi in forme e modi impercettibili allo sguardo e più vicini all’udito: secondo una convinzione cara alla filosofia ìndica (quella dell’India, cui non a caso è dedicato un intero capitolo, dei tre che costituiscono il volume), la verità va meglio e più spesso ascoltata, che guardata. Ecco che la realtà si fa ineffabile, ma non del tutto; dove lo sguardo non arriva (e il concetto non può mostrare), giunge talvolta la voce, dicendo il vero (e qui il discorso potrebbe incrociare volentieri quello di Heidegger, curiosamente assente nella pur nutrita bibliografia quadrilingue).
Sabina Meyer, Dare voce all’invisibile, ed. Scienze e Lettere, 2015.
(«Mangialibri», 22 giugno 2016)
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