giovedì 21 gennaio 2016

H. Melville, Moby Dick, ed. Einaudi, 2015

«Chiamatemi Ishmael»: chi non ha mai sentito quest’incipit, alzi la mano. Si legge e si rilegge Moby Dick - sfidandone la mole, non solo in senso metaforico - per tanti motivi. Perché è un capolavoro, e di quelli con la maiuscola, non c’è dubbio. Per la musicalità della sua lingua (che conserva, paradossalmente, l’armonia anche quando il suono cede il posto al rumore - come nel ticchettio lancinante, ma ben presto irrinunciabile, del tallone d’avorio del capitano Ahab sul ponte del Pequod). Per la densità dei temi filosofici che affronta: dal confronto con la morte e con le ragioni del vivere (che richiamano istintivamente un altro incipit, quello del Mito di Sisifo di Camus), a quello con l’origine e il mistero. E c’è tanto, tanto altro.
Ancor più volentieri si riscopre tutto questo, quando la traduzione si pone come obiettivo fondamentale - oltre alla fedeltà all’originale, che si dà per scontata (qualunque cosa possa significare questa parola, in un ambito in cui “tradurre” fa sempre rima con “tradire”) - quello della più grande fluidità: obiettivo centrato perfettamente da Einaudi, che ha affidato l’arduo compito a Ottavio Fatica - traduttore e insegnante della pratica del tradurre perugino, che ha lavorato per i più grandi editori d’Italia, già vincitore dei premi Mondello e Monselice (nonché del Premio Nazionale per la Traduzione), che ha tra l’altro tradotto le opere di Joseph Conrad, William Faulkner, Henry James e curato quelle di Rudyard Kipling, Flannery O’Connor, Jack London.
L’esito di questa impresa (che non teme il confronto con la “classica” traduzione di Cesare Pavese per Adelphi) è un prodotto di qualità altissima, caratterizzato dall’attenzione verso una resa testuale della massima attualità: spiccano in tal senso la scelta di lasciare intatti i nomi dei protagonisti (del resto non siamo più nell’epoca in cui di traduceva in “Emanuele” il nome di Kant; né siamo più al tempo in cui si ignorava la pronuncia dell’inglese, ragione per la quale era necessario scrivere “Achab”), per cui leggiamo finalmente di Ishmael e di Ahab; e l’assenza di termini desueti e di difficile fruizione.
Per le caratteristiche intrinseche del contenuto, oltre che per le rifiniture del volume, la lettura è fortemente consigliata.


H. Melville, Moby Dick, ed. Einaudi, 2015. Traduzione di Ottavio Fatica.

(«Pagina3», 19 gennaio 2016)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano