lunedì 9 novembre 2015

S come Somalia (e come Storia). Intervista a Igiaba Scego

Igiaba Scego è nata a Roma da una famiglia di origini somale. Ha collaborato con molte riviste che si occupano di migrazioni e di culture e letterature africane e con alcuni quotidiani, oggi scrive per «Internazionale». Dalla sua scrittura - letteraria, saggistica, giornalistica - trasuda una Somalia martoriata dalla guerra e dallo sfruttamento, ma indomita e ansiosa di riscatto e di redenzione. Un Paese - un popolo, soprattutto - che è ben cosciente di potercela fare, e nel migliore dei modi: con la forza del suo “demone” interno... e del suo sorriso. Lo stesso che Igiaba rivolge a noi in questa intervista. Foto di Simona Filippini.


Scrivi spesso storie di persone “qualunque” e dei loro problemi “qualunque”, che assumono pian piano le proporzioni di difficoltà epiche, al limite dell’insormontabile. Come sei arrivata a questo stile?
Non so bene se sia uno stile. Ma mi piace partire dal quotidiano per abbracciare poi la grande storia. Dal particolare per arrivare al generale. Parto poi da figure subalterne, non considerate dalla Storia con la S maiuscola. Perché nelle pieghe di una vita subalterna che si scrive l’esistenza del mondo. Nella sofferenza del subalterno che si annidano le contraddizioni della nostra società.
Dipingi la Somalia come un Paese che non riesce a trovare pace neanche quando finisce la guerra. Come Adua, la tua protagonista...
La Somalia è un Paese bellissimo, ma con una storia travagliatissima. È passata di mano in mano e non ha mai avuto veramente la possibilità di essere autonoma. È passata dagli italiani ai sovietici, agli americani e ora ai turchi e agli affaristi: è terra di conquista per tutti. Durante la guerra civile è stata l’immondezzaio per le multinazionali (Ilaria Alpi purtroppo non è morta in Somalia per caso) e ora il terrorismo non le dà tregua. È sempre stata colonizzata, depredata. Purtroppo per riscrivere una storia diversa serviranno almeno un paio di generazioni . Solo i nuovi somali potranno prendere in mano la materia incandescente di questa storia di dominio e sopraffazione. Adua in fin dei conti ha vissuto le contraddizioni e l’itinerario della sua terra di origini, è una sconfitta dalla vita. Ma come la Somalia non molla. Ha un demone interno che la spinge comunque a ripercorrere la sua storia con coraggio. Alla fine Adua non cede. Come la Somalia, del resto. I somali e le somale non cedono. Sono persone che hanno superato le avversità sia in patria sia fuori (sono tanti i somali che sono morti nel Mediterraneo), ma hanno sempre una marcia in più, un sorriso da donare al mondo.
La mancanza del padre sembra tematizzare la più ampia mancanza della madre-terra. Che vuol dire nascere e crescere in Europa, sapendo di “venire” dall’Africa?
Per me o per Adua? Per me l’Europa è una casa sgangherata che vorrei aggiustare. Per questo scrivo. Penso che l’Europa e l’Italia in cui sono nata abbiano grosse difficoltà con la diversità. Non riescono a vedere le tante diversità che la compongono come europee, ma lo sono. Essere afroeuropei non è una contraddizione, ma un fatto. Per esempio il rapporto Europa-Africa ha radici che sprofondano nella storia. Io nel mio piccolo cerco di fare emergere queste radici in comune, fatte di incontri e scontri, illusioni e delusioni. Adua per me è un piccolo contributo nella descrizione di questo continente e nello specifico di un Paese meticcio. L’Europa e l’Italia sono meticce da sempre, non da oggi... ma fanno fatica a vedersi come tali. Io ho in mente una serie di scritti su questo argomento. Mi interessa. Anche perché mi sento italiana, somala, europea, africana. Vorrei che queste parti della mia identità entrassero più in dialogo anche fuori da me. Dentro di me dialogano benissimo, dentro di me non ci sono contraddizioni. Io sono fatta di Europa e Africa. Ma ecco, fuori ancora questo non è chiaro. Scrivo perché sento che in Italia questo meticciato non sia raccontato abbastanza, sia ancora solo legato ai fatti di cronaca. Quando c'è un mondo da raccontare, da attraversare. Adua invece non è nata a Roma come me. Lei arriva qui pensando di trovare qualcos’altro. Vive la delusione di non aver trovato quello che cercava, di essere stata tradita nelle sue aspettative e il dramma poi di essere usata da un sistema corrotto. Ho scritto di Adua perché nessuno dovrebbe essere usato come Adua. A me non è successo perché ho avuto genitori fantastici che mi hanno sostenuto e insegnanti che in tempi non sospetti hanno fatto un lavoro contro il razzismo esemplare. Mi ha aiutato lo studio, mi hanno aiutata i libri. In una società che non accettava il mio colore il rischio di essere schiacciati era alto. Ma appunto famiglia, scuola e biblioteche sono stati fondamentali.
Il colonialismo fascista italiano - che descrivi senza mezzi termini – ha rappresentato una delle più grandi ferite della Somalia. Che immagine ne hai? E che ricordo dovrebbero conservarne tutti gli italiani?
Più che ricordato il fascismo (quindi anche il colonialismo che ne è solo un aspetto) andrebbe studiato. Non sappiamo veramente bene cosa ha significato per gli italiani, ma anche per gli eritrei, somali, etiopi, libici, ebrei italiani. Spesso ci fermiamo alla superficie, al saluto romano, al gossip di guerra. Ma dovremmo andare oltre. E soprattutto decostruire i lasciti di un regime ventennale tra i più violenti al mondo. Ma il Fascismo è solo un aspetto di un’Italia che si è costruita facendo la guerra ai subalterni, spegnendo i cervelli degli intellettuali. E questo da subito, dall’unità d’Italia. Non è un caso che il colonialismo in Africa sia stato preceduto da un colonialismo interno. Lo dico sempre: prima di colonizzare Asmara o Mogadiscio l’Italia ha colonizzato Napoli e Palermo. Secondo me la devastazione dei corpi, delle anime e della memoria va fatto risalire a questo colonialismo interno. Per capire Mogadiscio, si deve passare per Napoli. Il sistema coercitivo, denigratorio, discriminatorio in Italia c’era ben prima del fascismo, con il regime mussoliniano è diventato dogma di Stato e pratica. Ma c’era da prima. E purtroppo c’è stato anche dopo. Se vogliamo costruire un’Italia libera dalle discriminazioni dobbiamo disinnescare gli stereotipi che si sono formati verso l’altro, il cosiddetto diverso, in 150 anni di storia. Non è facile. Ma se vogliamo aver cura del nostro Paese e di noi stessi dovremmo farlo. Solo nella storia, nel suo studio, c'è l’antidoto per il razzismo. Non sapere crea invece l’alibi per poter continuare ad odiare.
La faccenda dei nuovi migranti che arrivano in barcone e che chiamano “vecchie lire” quelli di seconda generazione, venendo a loro volta chiamati “Titanic” (con un certo humour nero) è esilarante. Ma è vera? O è una trovata tutta tua?
Vecchia lira non sono le seconde generazioni, ma le signore della diaspora somala venute qui negli anni ‘70. Donne come Adua. Purtroppo è vero che nella comunità somala si è cominciato a chiamare i giovani richiedenti asilo Titanic. La prima volta che ho sentito chiamare i giovani rifugiati così ho tremato. Mi sono indignata. Possibile? Invece di solidarizzare con i fratelli e le sorelle denigrarli così? Chiamarli come una nave che è affondata? Un ragazzo una volta me lo ha detto: “Ma perché ci chiamano Titanic? Io so che è un film dove tutti muoiono, ricordatevi sempre che io non sono morto”. C’era molta fierezza in quel ragazzo incontrato per caso. e la sua frase l’ho messa nel libro. Naturalmente non si può essere denigrati senza reagire. Siccome in Somalia lo sfottò verbale a volte diventa teatro o poesia, è successo che i giovani richiedenti asilo stufi di essere chiamati Titanic hanno chiamato le donne della diaspora vecchie lire. Per dire “Ok, noi siamo Titanic, ma voi siete lire scadute”. Molta crudeltà, presa di distanza reciproca, fraintendimenti. Ho voluto riproporlo nel libro perché per i media italiani e migranti sono come due grandi squadre di calcio. Ma chi sono gli italiani? I friulani? I campani? I veneti? Quale la loro classe sociale? Il loro orientamento sessuale? E i migranti chi sono? Albanesi? Statunitensi? Somali? Eritrei? Siriani? Brasiliani? CHI? “Migranti” è un termine che confonde. In Italia non si pensa alla complessità di noi esseri umani, soprattutto i media semplificano. La letteratura alla fine serve a questo: a completare un quadro un po’ opaco e soprattutto a parlare delle relazioni dietro le nude cifre. Ho cercato di fare questo, con Adua.
Nessuna esecuzione sommaria per i tanti personaggi; eppure il giudizio su di loro - praticamente senza eccezioni - sembra essere più negativo che positivo. Perché?
Non so se sia negativo. Credo di essermi messa vicino ai personaggi, accanto a loro e non ho nascosto le loro ambiguità. Sono personaggi confusi. Persino il picchiatore fascista Beppe, picchiatore burino, usato dagli altri commilitoni, cosa fa? Pesta a sangue Zoppe, ma poi dopo gli dà il nocino per farlo riprendere. Sono personaggi pieni di contraddizioni. Pensiamo solo a Zoppe che si pente del suo ruolo come interprete dei gerarchi fascisti, ma poi non ha avuto il coraggio dell’amico Dagmawi di diventare partigiano. Cosa fa Zoppe? Chiama Adua sua figlia per riallacciarsi ad una storia di eroismo (Adua è la vittoria degli etiopi sugli italiani) che non appartiene al suo vissuto. Non credo siano personaggi negativi, direi piuttosto sconfitti.
Hai scritto sia romanzi sia saggi, tutti dal punto di vista della migrazione. Che anticipazione ci dai sul tuo prossimo lavoro?
Ho scritto un racconto che uscirà per un'antologia a maggio 2016. Prossimamente ci sarà una sorpresa e si ho già cominciato a studiare per il prossimo romanzo. Vi posso dire che ci sarà sempre la grande storia a guidare i miei passi. Ormai ci ho preso gusto. W la Storia!
(«Mangialibri», 6 novembre 2015)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano