lunedì 30 novembre 2015

Africa e diaspora. Intervista a Filomeno Lopes

Se dovessi descrivere l’Africa di oggi con una sola parola… quale useresti?
Bisognerebbe anzitutto capire di quale Africa stiamo parlando, ma questo è un tema che andrebbe approfondito. A volte mi trovo a dire che il mondo in cui viviamo è un po’ come un “poligino”, un uomo che ha più mogli, tra le quali l’Africa è la prima, perché ha dato i natali all’umanità, come sostiene la biologia evoluzionistica. Oggi, a distanza di tanti e tanti anni da quel matrimonio, l’Africa si trova ad essere la moglie più attempata, quella che il marito guarda e brama meno di tutte; il che le dà però anche una libertà - da quelle attenzioni che verso altre sono magari eccessive - inedita: così che la sua condizione di apparente abbandono può essere vista, in certo modo, come appunto una condizione di maggiore libertà, nella quale può pensare più autonomamente a se stessa.
Poligino… o poligamo?
È poligino il termine giusto, perché di fatto è solo uno dei due generi che può avere più di una moglie, e non viceversa. Dire “poligamo” è nient’altro che un’ipocrisia.
Quindi l’attuale condizione economica e geopolitica dell’Africa non è negativa? Almeno, non del tutto.
No, appunto. Basti osservare che la gran parte dei Paesi che crescono di più, in termini di PIL, si trovano nel continente africano (anche se si tratta sovente di una “crescita senza sviluppo”, perché non c’è una adeguata distribuzione della ricchezza), penso all’Angola, al Mozambico ecc. Il problema è: come vogliamo usare tutto questo? Ci vuole a mio avviso un progetto endogeno, come quello che ha portato all’indipendenza nella seconda metà del secolo scorso, capace di trascinare e coinvolgere i popoli. Purtroppo mi sembra che questo manchi alla politica africana, presa come tutti dalla voragine del denaro e del consumo; manca una politica à la Mandela, orientata a un ideale costi quel che costi. Siamo ancora oggi stretti nel circolo vizioso del produrre ciò che non consumiamo, e del consumare ciò che non produciamo. Bisogna cambiare direzione. E bisogna farlo, come dicevo, partendo da noi stessi: la risposta deve venire dall’Africa.
Una questione di metodo.
Sì. Se volessimo usare un termine complicato, potremmo dire che bisogna uscire dalla “epistemologia della difesa”. Per usare invece una metafora calcistica, diremmo invece che si deve cominciare a giocare attivamente all’attacco, costruendo al centrocampo. Il concetto è semplice: storicamente siamo stati (e ci siamo) collocati in difesa, e questo non va più bene. Dobbiamo formulare proposte che sappiano anticipare i tempi, essendo in grado di metterle al servizio del nostro popolo. L’Africa ha fatto parecchi passi in avanti; ma, come in tutto il mondo, sono ancora tante le cose da fare.
Crescita, sviluppo, progresso: tutto parole un po’ pericolose se pronunciate in astratto. A quale tipo di sviluppo dovrebbe aspirare l’Africa?
Proverò a rispondere con le parole del celebre vescovo Helder Camara: “Lo sviluppo non è nient’altro che ciò che è in grado di rimettere in piedi un uomo o una donna”. A questo si deve aspirare. Chiamala politica, economia, o carità. Ma l’obiettivo è questo. Non c’è nessuno sviluppo - anche se aumentano la ricchezza, la tecnologia, il potere - se gli uomini e le donne rimangono per terra. E non c’è più alibi per non farlo: il nostro pianeta è ricchissimo e già saremmo in grado di realizzare questo obiettivo. Ma non ci arriveremo mai, se non saremo capaci di mettere la dignità di ogni uomo - dal più piccolo dei bambini al più anziano dei nonni - in primo piano.
A proposito di politica: pensi per l’Africa a una federazione di Stati, magari sul modello di quella americana o europea?
Per fortuna il mondo è molto più vasto dell’America e dell’Europa. Che a volte sembra abbiano inventato la democrazia, o addirittura la politica tout court: non dovremmo invece dimenticare che Platone (che non riusciva a darsi pace per il fatto che una comunità come quella ateniese avesse potuto uccidere il suo maestro, Socrate) se ne andò in Egitto - il cuore dell’Africa - a prendere ispirazione per i suoi scritti politici. L’America e l’Europa sono, almeno da questo punto di vista, molto più giovani; anche se le vicende storiche hanno poi messo in ombra, o screditato, le esperienze politiche più antiche. “Che cos’è la democrazia?” chiedevo spesso a mio padre. E lui: “Semplice: ricordare ogni volta, agli altri, che esistono anche gli interessi degli altri”. Non c’è bisogno di venire in Europa per capire questo. Non c’è bisogno di nessuna lezione da parte di nessun continente verso un altro. Soprattutto se, dietro questa “voglia di insegnare”, si nascondono altri interessi.
Nulla da insegnare, questo è chiaro. Ma forse l’Europa potrebbe giocare un ruolo nell’aiutare l’Africa a venir fuori dai propri problemi.
Ciò che veramente serve all’Africa è che la si metta in condizione di sviluppare le proprie potenzialità. Nessun aiuto dall’esterno; se non quello che serve a rimuovere gli ostacoli alla propria evoluzione. Lo dico con una battuta che spero riesca a rendere immediatamente l’idea: se dobbiamo sacrificarci e lottare per diventare, alla fine, come l’Europa o gli USA… tanto vale consegnarci direttamente nelle loro mani, perché meglio di loro nessuno sa come si fanno le cose. Non si fraintenda: nessun disprezzo, né snobismo, per tutte le belle cose (e sono tante) che sono riusciti a realizzare a casa loro. Ma ogni luogo è unico; e ognuno, a casa propria, deve inventare da sé le soluzioni ai propri problemi. Ciascuno vuole imparare a educare da sé i propri bambini: nessuno vi rinuncerebbe, anche se potesse avere a disposizione il miglior pedagogo del mondo a farlo al posto suo. Poi c’è ancora da capire
continua
cosa sia questa “Africa” di cui parliamo. Noi continuiamo a parlare di “Africa”, di “Occidente”, ecc., in termini geografici, trascurando il fatto più importante: che cioè questo “Occidente” non è un altro continente, ma la realtà culturale nella quale tutti noi africani siamo nati e cresciuti. Abbiamo imparato a scuola esattamente le stesse cose che hanno insegnato a voi; la mia cultura è occidentale (il fatto stesso che io stia facendo questa intervista in italiano, mi sembra abbastanza eloquente)... tutto questo perché abbiamo avuto il Portogallo in casa. E l’abbiamo assorbito in tutti i sensi. Bisogna capire questo: dal momento in cui è iniziata la conquista (dal XV secolo a questa parte) ci è stato imposta una identità completamente nuova - la lingua, l’istruzione, il modo di pensare, tutto. Come diceva un filosofo del Camerun: “Ciò che noi chiamiamo Africa, non è altro che la Francia della diaspora”. Non c’è più niente di esterno che non sia diventato interno: e questo vale per tutti, come ad esempio per quei tanti europei nati e cresciuti in Africa… che non hanno più niente dei loro avi. Sono, per così dire, euroafricani, così come noi siamo afroeuropei. Che differenza c’è? E soprattutto: cosa intendiamo con “Africa” ed “Europa””, visto che ormai non c’è più nessuna “purezza” (ammesso che vi sia mai stata)? Vogliamo proprio dire cosa sia l’Africa? L’Africa è la coscienza di gruppo, di popolo, di volontà di riscatto che nasce sulle navi che trasportano gli schiavi via dalla loro terra. Lì nasce l’Africa: fuori dall’Africa. Noi parliamo di queste cose ancora in termini geografici. Ma esiste una siffatta geografia, al di là della matrice storica? Credo di no.
Bisogna puntare lo sguardo al passato, insomma.
O, più che altro, al futuro: alla “generazione della diaspora”, quella attuale, dalla quale può nascere un figlio comune alle culture che si incrociano sul piano globale: il futuro è questo. Non c’è più posto per “noi qui, voi là”. Né è una questione di principio: non ci sono proprio più i mezzi per continuare a farlo. È finito il tempo delle lotte che un popolo fa contro un altro popolo: la lezione di Mandela è stata proprio spiegare a tutti che l’emancipazione di un popolo è l’emancipazione dell’intera umanità. Siamo abbastanza maturi per portare avanti questo testamento?
Quali sono, secondo te, i più grandi problemi dell'Africa contemporanea?
Ce ne sono tre: il primo è la negazione del grande contributo storico che l’Africa ha dato a tutta l’umanità. Il secondo sono le conseguenze della tratta atlantica, del colonialismo e dell’apartheid. Il terzo è il male che noi africani ci facciamo gli uni gli altri dall’indipendenza ad oggi. Io mi concentrerei sul terzo punto: il contributo che posso dare, oggi, all’umanità.
Non c’è anche il problema del fondamentalismo religioso?
Direi che è un problema minoritario e anche in gran parte malinteso. La religione più seguita in Africa è quella tradizionale: né il cristianesimo, né l’islam. I conflitti nascono occasionalmente ad opera di gruppi facinorosi per interessi che con la religione hanno ben poco a che fare: è un problema di pochissimi Paesi, essenzialmente concentrati nell’Africa dell’ovest. Ma penso poi a un Paese come il Senegal, dove più del 90% della popolazione segue l’islam: ebbene, nonostante sia stato governato per vent’anni da un cattolico, in regime di elezioni democratiche, non c’è mai stato nessuno scontro religioso. Altrove, dei musulmani costruiscono cattedrali cristiane; e i vescovi cristiani gettano le pietre per la fondazione delle scuole coraniche. L’incompatibilità è una bugia: si può convivere tranquillamente e pacificamente.
(«l'Altrapagina», novembre 2015)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano