Nell’anno 2015 dell’esposizione mondiale dedicata al cibo, nel mondo - nello stesso mondo - almeno 1 miliardo di esseri umani mangia meno o peggio (spesso entrambe le cose) di come dovrebbe. Demagogia o matematica? In attesa di capirlo, osserviamo che la fame, che credevamo un problema ormai superato - un po’ come certe malattie che hanno fatto la loro epoca e proprio non ti aspetteresti di rivedere, come il vaiolo - è invece ritornata nel cuore dell’Europa proprio sul più bello, all’apice del trionfo del capitalismo. Quel capitalismo le cui corporation - dedite a globalizzare lo sfruttamento e a nazionalizzare i profitti - costringono noi a un curioso movimento inverso nel quale, dietro lo sbandieramento di una “maggior ricchezza per tutti”, si nazionalizza la miseria: così accade che ci si scopra (noi italiani, ad esempio), improvvisamente, non solo più poveri di prima, ma poveri, tout court; tanto da non poter più aiutare gli altri (ad esempio con i fondi internazionali di solidarietà) perché adesso ci sono “le famiglie italiane” che vivono in condizioni di difficoltà e vanno aiutate per prime. Sacrosanto: se la sofferenza di chi è lontano ci stringe il cuore, figuriamoci quella di chi ci è più vicino. Eppure, il ritorno della fame in Europa non è una disgrazia, come il vaiolo; non è mica la malasorte ad averla portata qui. Siamo ben consapevoli che si potrebbe mangiare tutti e bene, oggi, con le conoscenze e le risorse di cui già disponiamo. Solo che non lo stiamo facendo.
Perché? Quali sono le responsabilità? Quali le connivenze? Soprattutto: quali sono le vie d’uscita? A queste domande prova a rispondere Martín Caparrós nel suo splendido La fame (ed. Einaudi), in cui raccoglie le storie di uomini, donne, comunità e interi popoli che ha incontrato viaggiando un po’ in tutto il mondo e in cui racconta le loro testimonianze, difficoltà e sofferenze immediate. Uno di quei libri di cui si può ben dire che “si legge come un romanzo”, perché scritto in forma di storia narrata: la fame infatti non è cosa che si possa semplicemente descrivere - non sarebbe abbastanza: - bisogna raccontarla per poterne parlare in maniera adeguata. Un libro che ha il merito - tra gli altri - di spiegare che ogni volta che globalizziamo nell’immaginario collettivo qualche nostro successo, non dovremmo trascurare quello che, nello stesso momento, sta accadendo agli altri. Perché il problema degli altri - in un battibaleno, e quando meno ce l’aspettiamo - può diventare il nostro problema. Proprio come la fame, che non ci aspettavamo più. Cos’altro capiterà domani? La desertificazione del territorio? L’esaurimento dell’acqua potabile? La necessità di un’emigrazione di massa? Chi può dirlo. Pensarci oggi può renderci più facile affrontarlo domani; e certo ci farà guardare agli altri in difficoltà con un occhio un po’ più obiettivo. Una nuova guerra, magari, come quella che è appena cominciata? Domani, chissà, potremmo avercela in casa. Ma di questo, magari, parleremo la prossima volta.
(«Il Caffè», 16 ottobre 2015)
venerdì 23 ottobre 2015
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