sabato 4 luglio 2015

La patria perduta. Intervista ad Agop Manoukian


Agop Manoukian, comasco armeno per parte di padre, è stato assistente presso la cattedra di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano, ricercatore presso l’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna e professore associato presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. A partire dagli anni ’60 ha maturato un’articolata conoscenza del mondo armeno e ha rivestito vari incarichi associativi tra cui quello della presidenza dell’Unione degli Armeni d’Italia.
 
La questione degli armeni compie oggi un secolo: cento anni… di che cosa?
Cento anni di un difficile cammino di ricostituzione di migliaia di profughi che hanno dovuto rifarsi una storia, una residenza, un futuro. Cento anni in cui il nucleo della nostra società armena ha cercato di ricostituire una unità territoriale che poi si è trasfigurata per preservarsi entrando nell’orbita sovietica, e dopo molti decenni è riuscita anche a ottenere un’indipendenza e un’autonomia; tra virgolette, perché ci sono sempre difficoltà di relazione con i Paesi vicini. Sono quindi cento anni di reazione a quella che definirei, sinteticamente, una catastrofe.
Quali sono le ragioni di questa catastrofe? Si poteva evitare?
Non siamo noi a poterlo dire. Gli armeni, anche all’interno dell’impero ottomano, hanno sempre avuto un atteggiamento collaborativo; ma non tacevano le loro richieste di rispetto di diritti. Erano così integrati socialmente che in certi momenti si sono perfino illusi di poter marciare insieme ai giorvani rivoluzionari turchi, nel 1909-10, per mettere in atto quelle riforme costituzionali in attesa da cinquant’anni, spinte anche delle potenze confinanti… non è facile dire se si poteva evitare. Chiaramente gli armeni, come noto, erano dislocati sotto tre imperi diversi, quindi lo scoppio della guerra ha sicuramente determinato un aumento di quelle contrapposizioni che hanno visto armeni schierarsi tanto da una parte quanto dall’altra: gli armeni si son trovati a esser presenti e fedeli su due fronti contrapposti, e quando la loro fedeltà è stata in dubbio dai turchi (il che è avvenuto quasi subito), sono diventati dei traditori e dei nemici. Ma fondamentalmente, essi erano in ogni caso e già da prima un ostacolo al progetto nazionalistico turco, che mirava alla costituzione di una nazione turca dotata di un’omogenità culturale, linguistica etnica ecc.
Che cosa possiamo dire di aver imparato da quest’esperienza centenaria?
È un tema che viene sollevato spesso: io non sono ottimista circa la capacità dei popoli e dell’umanità di trarre profitto dall’esperienza. Questo profitto ce l’hanno solo le persone che sono al di fuori dalle contraddizioni reali e immediate, quelle persone che possono scrivere, riflettere... Non credo basti la memoria per evitare che la storia si ripeta. C’è un noto detto per il quale la storia sarebbe una buona maestra; se è così, sono gli studenti a mancare. E mancano nei momenti più critici, come quello che stiamo vivendo. Noi siamo, come tutti, incapaci di fermare questi scontri, che hanno una natura economica e demografica e passano al di sopra delle buone intenzioni e degli insegnamenti passati. Mi rendo conto che può suonare cinico; certo non è rassicurante.
In effetti è una lezione un po’ dura la Sua: se i popoli non imparano nulla dalla storia… chi potrà salvarci?
L’Europa negli ultimi cento anni ha conosciuto cose tanto diverse e inimmaginabili - dai campi di concentramento al Nobel per la pace - che una speranza rimane sempre. È solo che è francamente difficile intravederla.
Quella stessa Europa vincitrice del Nobel per la pace, ma ancor oggi in guerra su tanti fronti diversi.
I Nobel sono spesso più un incentivo a mantenere la rotta che, l’attestazione del raggiungimento di un traguardo. E come vediamo nel caso proprio dell’Europa, che al centro riesce a mantenersi stabile, le periferie vanno sempre un po’ alla deriva: ce lo mostra la situazione Ucraina. Il Nobel all’Europa ha più il sapore del premio di incoraggiamento che del giudizio storico: soltanto il tempo potrà dirci se quest’Europa… tiene o no.
Come dire: la verità non risuona al centro, ma alla periferia. È lì che si tocca con mano come stano veramente le cose. in che modo pensa che - nell’attuale situazione geopolitica - i rapporti tra Turchia e Armenia possano evolvere?
La strada che certamente non può funzionare è quella della contestazione. Pensiamo all’affermazione coraggiosa del papa, che da un lato dà sfogo all’irrequietezza della diaspora che da anni continua a impegnarsi per il proprio riconoscimento, e che vede l’ammissione del genocidio come una cosa fondamentale, oltre che come un tributo alle vittime; d’altro canto però non sempre questa sottolineatura formale trova il nostro interlocutore - parlo della Turchia “ufficiale” - disposto a negoziare. D’altro canto è la natura di questo tipo di rivendicazione (la richiesta di resa incondizionata) a soffocare lo spazio per la negoziazione. Qui si rischia di sortire l’effetto contrario, di avere in risposta un ulteriore irrigidimento e questo non conviene agli armeni, che non dovrebbero dimenticare di essere nella diaspora, e soprattutto non dovrebbero dimenticare degli armeni che si trovano in Turchia oltre che in Armenia. La riconciliazione dovrà nascere dalla base, dalla gente che pian piano scopre delle ascendenze armene di cui non aveva cognizione (perché molti orfani vennero islamizzati)… c’è tutto un movimento della società civile che sta cercando di accedere a questo pezzo di storia che gli è stato negato. Lì sicuramente ci sono le basi per una caduta delle barriere; le barriere più ufficiali invece, se provocate, rischiano di irrigidirsi. Questa è una delle problematiche del riconoscimento. Qualcuno adesso, dopo la frase del papa, si aspetta un’uscita in tal senso anche di Obama; ma credo che si tratti di un’arma a doppio taglio.
In questo senso Lei crede più al lavoro della cultura e dell’opinione che della diplomazia.
Esatto. Se la gente potrà cominciare a leggere i libri di storia - e al momento la cosa è tutt’altro che facile, perché è noto che Ataturk ha praticamente cambiato ai turchi la lingua, per cui non possono andare a leggere i loro stessi libri, che prima venivano scritti con i caratteri arabi, oltre ad aver cambiato la storia, eliminando da essa tutte le tracce di “armenità” della Turchia (negando sistematicamente l’eredità armena del patrimonio turco) - e accedere alla conoscenza - tramite internet, tramite i libri che ora vengono piano piano tradotti in turco - ci si potrà finalmente riappropriare del poprio passato: ciò dà la speranza di lavar via questa macchia che grava sul popolo turco. Al momento la questione è ancora tabù. Ci vorrà del tempo, e ovviamente non c’è nessuna garanzia che le cose migliorino davvero: abbiamo visto cosa è successo in medioriente, dove sembrava si fosse in primavera e invece è arrivato un rigidissimo inverno.
Un punto di somiglianza (e uno di differenza) con la diaspora ebraica.
Ci sono tante somiglianze, e tante diversità. Una diversità grande è che la diaspora ebraica, dopo tutto quello che ha subito, è riuscita a edificare il sogno di un ritorno alla propria terra e della costruzione di uno Stato ebraico. Per gli armeni questo non c’è stato, perché l’Armenia è una cosa diversa dallo Stato di Israele: l’Armenia è stata una realtà congelata, una realtà dimezzata - perché gran parte di quel territorio, della sua cultura architettonica, paesagggistica, in cui vivevano gli armeni, adesso non c’è più, è in mano alla Turchia e fino a poco fa non si poteva neanche attraversarla - quindi questa Armenia in cui adesso ci ritroviamo è in un certo senso costruita interiormente, ma non è stata una costruzione collettiva e politica di “ritorno al proprio luogo”. Il mio luogo, ad esempio, è ora in mano turca.... Questa Armenia ha una certa difficoltà a integrarsi col resto della diaspora, qui le cose sono andate diversamente che per gli ebrei. Per molte cose siamo ancora sudditi dell’ex-Unione Sovietica (che ci difende con le sue armi). Sicuramente questo centenario è un’occasione importante per una riflessione corale.
L’Italia ha partecipato col cuore della vicenda armena fin dai primi tempi, nella figura di Giacomo Gorrini.
È stato un uomo che ha avuto grandi dei meriti come archivista, creando le basi per un archivio di documenti armeni. Avendo avuto l’opportunità di esser nominato console a Trebisonda, dove c’era una comunità armena molto viva, ha potuto conoscere il nostro popolo da vicino; in seguito, quando è stato costretto a rientrare in Italia dallo scoppio della guerra, è stato un testimone importante: in un’intervista al «Messaggero» del 1915 ha raccontato quello che aveva visto, non le solite notizie giornalistiche più o meno “ufficiali” o di parte, e poi ha continuato a mantenere anche durante il periodo fascista un occhio particolare nei confronti della comunità armena italiana, che ha aiutato in molti casi a proteggersi da leggi che potevano portare alla limitazione della libertà degli armeni (allora trattati come sudditi ottomani. La storia della comunità armena in Italia lo ricorda come uno dei nostri protettori.
Il Suo auspicio per il popolo armeno nel terzo millennio.
L’auspicio è quello mantenere vivo il dialogo fra la diaspora e la Repubblica armena: solo così si potrà mettere a frutto tutta l’esperienza (e tutta la sofferenza) maturate in questi anni a favore di una crescita democratica, culturale e umana della Repubblica d’Armenia.
(«l'Altrapagina», maggio 2015)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano