E il Salone com’è? Luci e ombre, ovviamente. Bello non si può dire che non lo sia. Ancora avvicinabile venerdì, il sabato è delirio: troppa gente, file ai bagni e ressa al bar. Gli editori fanno un gran lavoro, in piedi quasi tutto il giorno, a inventarsi l’impossibile per portare a casa il risultato: perché andare al Salone costa, altroché, in termini di viaggio, di spazi, di spese vive. Così fioccano gli sconti del 20, del 30 anche del 50%: riesco ad aggiudicarmi i vecchi noir di Veraldi a meno che online. Tra le tante iniziative extra c’è la questura che organizza incontri sulla violenza domestica e sullo stalking. Ma gli stand più affollati restano pur sempre quelli dedicati alla cucina e agli zombi, segno che questi generi… non muoiono mai.
Fuori, Torino. Nel poco tempo che rimane ci concediamo piazza Castello, la Mole, il lungofiume, un piccolo giro in battello sul Po. È una città strana, tanto grande e abitata (quasi un milione di residenti) quanto deserta: pochissima gente per strada, i torinesi sembrano non andare mai a piedi. Alloggiamo a San Salvario, il quartiere della famigerata movida, - che pare dia da fare alle forze dell’ordine a settimane alterne - eppure dalle nostre finestre non si sente nulla. Sporca un po’ meno di Caserta - ma solo un po’ - e bella, ma un po’ monotona: dopo aver visto Santa Maradona e le tante miniserie televisive degli ultimi anni, me l’aspettavo un po’ più romantica. Mia figlia decenne l’ha definita “ligia e grigia” e credo che abbia sostanzialmente ragione. Al ristorante servizi lunghissimi: dopo un’ora di attesa dall’ordinazione, a momenti ci alziamo e andiamo via: ma siamo su una terrazza in riva al fiume più grande d’Italia, ad allungare un piede c’è da bagnarsi la scarpa. Lo sguardo si perde in lontananza verso la vegetazione che ondeggia sull’acqua placida; un movimento congiunto che placa ogni agitazione. E quando ti alzi a fine pranzo, ti dispiace al pensiero che, di lì a poche ore, dovrai andare via.
(«Il Caffè», 22 maggio 2015)
