Napoli, 1841. Antimo è un bambino di sette anni, ospite del brefotrofio detto Serraglio. Nonostante la sua tenera età, ha deciso che non ce la fa più a sopportare le angherie e la mancanza di prospettiva della sua vita da recluso: per questo stanotte fuggirà, accuratamente nascosto in una delle ceste che escono di continuo dallo stabile, ricolme di paglia o di lenzuola. O almeno ci proverà: è necessario superare i non facili controlli al cancello d’uscita, con le guardie che - per andare sul sicuro - infilano le loro baionette nelle ceste, fino in fondo. È lì che qualcosa va storto, e una delle guardie infilza a morte il corpo del piccolo. Cosa su cui il commissario Fiorilli vuol fare chiarezza, in una città che nonostante il tanto sole sembra votata all’oscurità di una vita problematica e dura, sempre sul ciglio della disperazione, dove la ruota del gioco del lotto - unico ristoro alla fatica giornaliera - fa da contraltare a quella dei tanti bambini esposti…
Il giallo storico non è una novità, né di questi tempi (classici ad esempio quelli orientali di van Gulik e quelli dell’Aristotele detective di Doody), né di questi luoghi: senza voler scomodare Mastriani, ne abbiamo già viste delle belle, tra le altre, ad opera del Principe di Sansevero, protagonista dei libri di Nathan Gelb. Insomma, non originalissimo, questo libro si attesta su un livello medio in ogni categoria: è abbastanza ritmato, abbastanza scorrevole, abbastanza godibile. Ha però un grosso punto debole: la scarsa cura editoriale, che - pur con l’attenuante della lunghezza del testo - tollera refusi (come la “i” mancante di pag. 18), sviste (come i termini “commissario” e “regio”, scritti a volte con la maiuscola, a volte senza) e piccole sciatterie (come gli apostrofi d’apertura a testa in giù). L’ortografia del napoletano è invece sbagliata troppo spesso per poter parlare di svista: alcune parole terminano con l’elisione, altre con la vocale accentata; certe parole hanno l’accento nel mezzo; apostrofi fuori posto, mancanti o di troppo. E il lettore finisce per domandarsi perché dovrebbe impegnarsi nel seguire per quasi cinquecento pagine un testo cui nemmeno l’editor ha dedicato grande attenzione.
V. Bottone, Vicarìa. Un’educazione napoletana, ed. Rizzoli, 2015.
(«Mangialibri», 9 febbraio 2015)
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