sabato 1 novembre 2014

Il fiume del noir. Intervista a Roberto Carboni

Roberto Carboni scrive noir e porta avanti una scuola di scrittura creativa. Ha pubblicato: Bologna destinazione notte. La fase Monk (Frilli, 2013), Alle spalle del Nettuno (Cicogna, 2012), C’era l’inferno in via dè Giudei (Giraldi, 2009). È appena arrivato in libreria il suo ultimo romanzo: Il dentista. I delitti delle sette chiese (Frilli).

Roberto Carboni, autore di noir. Come nasce la passione per questo genere?
Il noir non è nemmeno un genere, è un contenitore. Il giallo è un genere, definito dalle sue regole. Il noir è anarchia, è un fiume che esonda e travolge tutto. Non c’è ragione, contano solo le pulsioni più profonde, a volte aberranti. Il noir è lo studio che nasce per l’interesse verso gli esseri umani e le ombre che vorrebbero segretamente custodire. Ma che emergono, come vapore tossico, perché le ombre sono proiettate contro la nostra volontà. Amo le ombre, ma non in quanto tali. Le ombre sono il proseguimento di un corpo fisico. Io cerco di descrivere ombre e corpi. Descrivere è una parola magica. Di solito nei romanzi l’autore di accontenta di svelare lo psicopatico, non di far capire al lettore cosa lo ha reso così. Non so come nasca questa passione, questo bisogno di scavare gallerie, e forse non potrei augurarla ad altri. Ma io non so più farne a meno.
Ci tieni a sottolineare che non si tratta di gialli. In cosa consiste la prerogativa (e l’opportunità) del noir?
La libertà. Il non dover per forza far la morale al lettore. Il giallo è un romanzo platealmente simbolico e sociale. Binario. Va verso la luce. Ti dice cosa è buono e cosa non lo è. Il colpevole è la mela guasta. La società rappresenta tutte le altre mele sane. Il noir al contrario postula che la società sia malata, e che l’atto criminale sia un atto (le virgolette sono d’obbligo) “quasi giustificabile” nei confronti di una società che cerca di annientare l’individuo. Oppure l’atto criminale è giustificato dal passato aberrante dell’individuo stesso. Il giallo inoltre è esaustivo, e pure questo è un grosso limite. Una volta scoperto il colpevole, passiamo ad altro come si fa con i cruciverba. Difficilmente rileggiamo un giallo. Il noir invece non risponde a tutte le domande. Pare dire al lettore “Veditela da solo. Sei grande”. Non spiega cosa è giusto e cosa non lo è. È uno specchio della moralità del lettore: sarà lui stesso a decidere, a trarre conclusioni. Per questo una volta girata l’ultima pagina si spalancano centinaia di questioni, e il lettore continua a pensare e a stare in compagnia del romanzo. Da questo punto di vista, il noir somiglia più a una esperienza, che non a una semplice lettura.
In cosa si distingue il noir fatto in Italia da quello più tradizionale d’oltreoceano?
Di solito agli americani piace esagerare. Se il protagonista di un noir americano si getta da un aereo usando un lenzuolo al posto di un paracadute, va tutto bene. Se provassi a scriverlo io, mi riempirebbero di insulti. Ma poi il discorso principale non è nemmeno questo. Il punto è che il noir è un genere imprescindibilmente urbano. Perché non si occupa direttamente di storie, ma di persone e di tessuto sociale. Ne consegue che, non solo un noir ambientato a New York sarà differente da uno Bolognese. Ma perfino un noir Milanese lo sarà. Perché le due città sono diverse, è diversa la gente. Il tessuto sociale, appunto. Mentre per il giallo, questo non avviene. Sherlock Holmes resterebbe tale in qualsiasi posto del mondo.
Una caratteristica dei tuoi personaggi che ti affascina.
La loro umanità, tridimensionalità. Voglio che il lettore senta il loro respiro sulle dita, mentre gira pagina. Voglio che il libro di notte cada dal comodino, perché loro scalciano e non riescono a star lì fermi. Un personaggio non deve essere nero o bianco. Nessuno di noi lo è. Deve avere contraddizioni credibili, lottare con se stesso ancora più che con il mondo. Deve contenere la luce ma essere anche figlio del diavolo. Il lettore deve sentire che il personaggio potrebbe veramente fare qualsiasi cosa. Proprio come nella vita, quando siamo messi alle strette. Con le spalle al muro. E sta a noi decidere se crollare annichiliti sulle gambe o ringhiare e combattere.
Una caratteristica dei tuoi personaggi che qualche volta, quando ci pensi, ti terrorizza.
Che mi somigliano. Mi piacerebbe tanto dire che i miei romanzi sono complementari a me. Ma non è così. La mia parte buia emerge. Jung diceva che accettare se stessi è il banco di prova della realizzazione umana. Scrivendo di loro, capisco me stesso. E a volte sì, un po’ mi spavento di come sono.
I tuoi romanzi sono particolarmente privi di elementi polizieschi (i soliti graduati, le solite prove del DNA ecc.). Com’è scrivere le storie di gente (più o meno) comune?
Siamo invasi dai commissari, investigatori o vecchiette appassionate di indagini. Inoltre creare questo tipo di protagonisti implica che il lettore fin dalla prima pagina sappia già come andrà a finire la storia. Che il commissario Maigret (che io adoro) scoprirà l’assassino, che non sarà ucciso, che sua moglie non chiederà il divorzio e che non avrà mai un figlio tossicodipendente. È molto teatrale, no? Poco veritiero. Noir è una parola a largo spettro. Come Cioccolato Fondente. A volte mangiamo cioccolato fondente e lo sentiamo quasi dolce. Poi ci accorgiamo che è fondente al 60%. Stessa cosa per il noir. Spesso i noir sono solo gialli un po’ più cruenti. Il mio concetto di noir è Noir al 99%. Senza compromessi. Deve partire che dici: peggio di così non potrebbe andare. E invece a ogni pagina degenera. È la terra del tutto è possibile. Il protagonista potrebbe morire, potrebbe non scoprire l’assassino o si potrebbe scoprire che è lui stesso il peggior delinquente che abbia mai abitato il pianeta… qualsiasi cosa. Inoltre, se la polizia prende un granchio, il lettore si sentirà ancora maggiormente esposto. Perché mancherà pure quella rassicurazione. Le forze dell’ordine sono paterne e rassicuranti. Motivo per cui, devono lasciare il lettore solo, al buio e al freddo.
Perché un lettore dovrebbe scegliere Carboni?
Questa non è una domanda, questa è la domanda. È la prima cosa che chiedo a chi partecipa ai miei laboratori di scrittura. “Escono 150 romanzi al giorno, perché un lettore dovrebbe scegliere proprio noi?”. Dobbiamo domandarcelo, per capire, per essere al servizio di chi ci legge. Credo nella tensione continua, nella precisione maniacale nel raccontare una storia. Perché non c’è niente di più serio della finzione. Con una parte del cervello, il lettore vuole sognare, ma con l’altra esige coerenza. Se un tizio ha in tasca 10 euro e due pagine dopo gli euro sono diventati 20, tutta la finzione crolla su se stessa. Il prestigiatore ha fallito la magia. Credo nel deformare la realtà il meno possibile. In maniera che il lettore si senta sul serio dentro la storia: ne sia investito. Credo nei capitoli corti, una o due pagine al massimo. Questo mi costringe a trovare continui colpi di scena. E il lettore è facilitato nella lettura. Anche se prende in mano il libro dopo una settimana, sa sempre da dove ricominciare. Senza dover tornare indietro 2 o 3 pagine. Non credo invece nel sangue gratuito, nelle parolacce o nelle scene di sesso messe lì a francobollo per attirare lettori. Le scorciatoie non pagano. Ma soprattutto credo che il protagonista sia il lettore. Che lo scrittore debba mettere da parte l’ego, e che sia sempre in debito con il lettore, e al suo servizio. Lo scrittore deve ricordarsi che tutto quello che scrive ha lo scopo di far sognare il lettore e non deve essere un faro puntato su se stesso. Come purtroppo, a volte, mi capita di leggere.
È appena uscito, per l’editore Frilli di Genova, il tuo ultimo Il dentista (solo l’anno scorso avevi pubblicato Bologna destinazione notte). Raccontaceli entrambi: 25 parole ognuno.
Entrambi i romanzi parlano di ossessioni brucianti. (Okay, le cinquanta parole partono da qui): Bologna destinazione notte, l’ossessione per una donna e per la musica. Mentre a Bologna piove e nessuno esce più di casa dopo il tramonto perché un pazzo rapisce e tortura le persone. Il Dentista, l’ossessione per un lavoro, che in realtà nasconde il vuoto abissale e disperato di un’anima malata.
Stai lavorando a qualcosa di nuovo? Qualche anticipazione per i lettori di questo giornale?
Tra pochi giorni uscirà un mio racconto in un’antologia con molti validi autori bolognesi e non. Serial Kitchen (Cicogna editore). Poi ho terminato altri due romanzi, che usciranno entrambi l’anno prossimo. A dire il vero uno dei due sarebbe dovuto uscire questo autunno, ma purtroppo è slittato. Sono quindi a pagina 90 di un altro romanzo ancora (per la prima volta scrivo in prima persona), molto impegnativo da stendere e molto duro, ma che mi sta dando soddisfazioni. E ci sono i laboratori di scrittura, che amo. Si formano amicizie intime, ci si scambia idee, diventano piccole esperienze di vita. Non potrei più farne a meno. E infine stiamo organizzando molti eventi, rassegne e festival, soprattutto incontri tra Jazz e Noir. Perché Jazz e Noir sono gemelli. Stessa inquietudine, stessa voglia di scardinare le regole. E spesso, nel bene e nel male, stessi protagonisti inquieti. Grazie per avermi fatto compagnia e lunga vita ai sognatori!
(«Patria Letteratura», 31 ottobre 2014)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano