lunedì 18 agosto 2014

Il calcio è una cosa leggiadramente seria. Intervista a padre Enzo Benesperi

Intervista a padre Enzo Benesperi, prete della diocesi di Pistoia, missionario in Brasile dal febbraio del 1977, quasi ininterrottamente, fino all’ottobre del 2008. Trent’anni a contatto con la gente dell’Amazzonia, in particolare a Manaus. Sono questi gli uomini e i luoghi che ci ha raccontato.


In questo momento si parla del Brasile quasi esclusivamente in riferimento al mondiale di calcio. Che idea se ne è fatto?
Anzitutto direi che un’ampia parte dei brasiliani, soprattutto quella con una coscienza civile maggiore, ha protestato contro questo evento, in maniera decisa, a volte perfino violenta: non si possono spendere la bellezza di 18 miliardi di dollari (che poi, secondo certe stime, sarebbero lievitati fino a 48 miliardi) in un momento in cui gran parte della popolazione ha ancora bisogno di strutture essenziali per l’educazione e per la salute. Una buona fetta della popolazione ha percepito questa spesa come uno spreco di denaro. La cosa è evidente in certi casi ancora più che in altri: a Manaus, per esempio, tutto ciò che è stato costruito rimarrà sostanzialmente inutilizzato, o sottutilizzato, perché qui non ci sono che squadre di provincia, di poco conto. È quindi un monumento inutile, uno di quelli per cui si può parlare a buon diritto di “cattedrale nel deserto”. Secondo qualche voce la struttura verrà addirittura riconvertita in carcere; noi speriamo di no, e che se ne faccia un uso un po’ più intelligente a servizio del popolo.
Che idea ci si può fare della politica brasiliana di oggi? È veramente una politica vicina ai bisogni della gente, o è solo una democrazia “spendacciona” come tante altre?
Intanto bisogna cominciare col ricordare che Lula è un uomo che viene dal popolo, nel senso più stretto del termine: è un uomo che per uscire dalla povertà ha fatto i mestieri più diversi, dal tornitore al venditore di caramelle e ghiaccioli, dall’operaio metalmeccanico al lustrascarpe. È uno che la sofferenza del popolo la conosce bene; e non c’è dubbio che, nei suoi due mandati, abbia cercato di alleviare quella sofferenza. L’ha fatto secondo la strada dell’assistenzialismo, fornendo contributi per la scuola, la famiglia e la sanità alle fasce più bisognose. Per quanto riguarda la spesa, quanto meno incoerente, del mondiale di calcio, può darsi che Lula non immaginasse una spesa di questa grandezza; e che, ingenuamente, avesse sottovalutato l’impatto della corruzione - tipica di questo genere di appalti miliardari, lo sappiamo bene anche in Italia - in un Paese, come il Brasile, tanto esposto a questi fenomeni e molto lento nel combatterli.
Tuttavia si può tranquillamente affermare che il Brasile stia oggi molto meglio di 10 anni fa.
Senza dubbio. Le statistiche ci dicono che oggi, rispetto a 10 anni fa, ben 40 milioni di brasiliani sono usciti dalla condizione di povertà assoluta. Ma anche con Dilma Rousseff si è andato avanti su questa stessa strada: con l’appoggio importante dei sindacati - non dimentichiamo che Lula ha fondato il Partito dei lavoratori (PT) a partire dal sindacato - ma con l’appoggio fondamentale delle comunità di base, che hanno sostenuto le sue intenzioni e i suoi sforzi da subito, in maniera decisa e compatta. È chiaro che c’è ancora molto da fare: nessuno può pensare che in soli dieci anni si possa cambiare il volto di un Paese che ha subito una dominazione di 5 secoli, da parte di una élite straniera che non ha curato altro che gli interessi propri e dei Paesi occupanti, impostando l’economia dell’intero Brasile sulle esigenze dell’esportazione.
Non dev’essere stato facile cambiare tanto le cose.
Tutt’altro: il primo ostacolo è stato convincere il popolo che Lula ce la poteva fare. Paradossalmente, il fatto che Lula fosse uno di loro, giocava a sfavore: perché il popolo spera sempre nell’“avvento di un messia”, e il messia è sempre uno che ha studiato, è ricco e viene “dall’alto” della classe dirigente, non “dal basso” delle officine e delle strade. Ma poi Lula ha dimostrato che un tornitore, che ha perso un dito al tornio, può essere in grado di guidare un Paese grande e complesso come questo, e di farlo nel nome e negli interessi del popolo.
Si potrebbe azzardare una proposta: Lula come esempio per l’Italia, o addirittura per l’intera Europa? Un esempio, in particolare, di come le cose possano migliorare non con politiche di austerità, ma proprio al contrario, con politiche di assistenza alle fasce più deboli?
Certo. È una cosa da sperare; forse - considerando la situazione politica attuale - è più facile che la cosa venga recepita in Europa, che in Italia. Ma il Brasile porta un grande insegnamento, oggi, per la Chiesa, ancor prima che per la politica: la Chiesa brasiliana ha fatto da tempo la scelta dei poveri, degli ultimi: moltissimi hanno abbandonato le città, con i loro privilegi, per andare a vivere in mezzo alla gente delle periferie, dove c’è la povertà vera, il bisogno urgente ed essenziale quotidiano. È un insegnamento che non è arrivato alla Chiesa italiana; solo adesso ci sta arrivando un po’, attraverso Papa Francesco.
E perché non portare in politica lo stesso insegnamento? Se al governo ci andassero direttamente… i poveri?
È difficile, è molto difficile (dice sorridendo). È difficile in primo luogo organizzare un movimento, un partito coordinato dai poveri; noi l’abbiamo fatto, con il PT, ed è stato complicato e laborioso. Ma, in secondo luogo, c’è un problema ancora più spinoso: anche i poveri, quando arrivano al potere… perdono la testa. È successo anche nel PT, c’è stato uno scandalo enorme in Brasile di parlamentari del PT che si sono venduti agli avversari - tanto che Lula ha dovuto a sua volta persuadere deputati dell’opposizione a votare per lui. Per tutti - per i poveri come per i ricchi - ci sarebbe bisogno di una formazione profondissima, che io definirei “evangelica”. Il denaro e il potere sono la più grande tentazione che ci sia per l’uomo. Me ne parlava tanto tempo fa Dossetti, il grande Dossetti. Mi diceva: “io che so cos’è il potere, sono stato tra i fondatori della DC, e della Costituzione… il sapore del potere è la più grande tentazione che ci sia”.
E sul versante culturale?
la cultura brasiliana è una cultura meticcia da sempre; a Manaus, ad esempio, c’è un incontro tra culture incredibilmente ricco: c’è la cultura india, che è la base, unita a quella europea, con gli italiani, i tedeschi, i polacchi; c’è la cultura portoghese, con la sua lingua tanto diffusa. meticciato che ha portato certamente grossi frutti, in letteratura, nella musica, nella danza, ma anche in altri ambiti come ad esempio quello della cucina, che risente molto dell’influenza india.
E si può forse inserire anche il calcio nel numero delle “arti” che la cultura brasiliana offre al mondo?
Certamente, perché chi conosce il Brasile sa bene che per i brasiliani il calcio non è uno sport, ma una danza; è vicino alla samba, non all’atletica. Per i brasiliani giocare a calcio - quando non si tratti ovviamente di una mera applicazione di tattiche finalizzate a conseguire un risultato vincente - è come ballare: è muoversi a ritmo, coordinando il movimento collettivo, unendo passi noti a quelli nuovi, inventati sul momento, con l’aiuto della fantasia e il supporto dell’affiatamento della squadra. E c’è un aspetto mistico nel loro modo di intendere il calcio: ho visto con i miei occhi donne pregare per la squadra nazionale; così come ho visto uomini di tutte le età piangere per una sconfitta. per loro perdere è un po’ come un lutto. Il calcio non è né solo un gioco né solo uno sport per i brasiliani: è una cosa, per così dire, “leggiadramente seria”.
Come una festa ben organizzata, insomma.
Sì: in Brasile è fortissima l’esigenza di gioire, di festeggiare, di cantare e ballare tutti insieme, anche in strada. La festa è una componente culturale importante.
In un immaginario incontro interculturale fra l’Italia e il Brasile: cosa potremmo apprendere direttamente, come prima cosa?
Quando c'è stata la commemorazione dei 500 anni dalla Conquista, si diceva in Brasile che finalmente le caravelle dovevano far ritorno. Ma, evidentemente, non potevano tornare se non cariche di quello che il popolo del Brasile poteva metterci su: la gioia di vivere e l’accoglienza. E un piccolo insegnamento per la Chiesa: riservare i primo posti, i posti d’onore… agli ultimi del mondo. L’attenzione, la premura - tanto materna quanto paterna - per gli “scarti” della società. È quello che ci permetterà di guardare al futuro con occhi pieni di speranza.
(«l'Altrapagina», luglio-agosto 2014)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano