Non amo i numeri. Ho amato, ai tempi della scuola - e ancora l’amo, anche se non più con l’infatuazione dei quindici anni - la matematica, la sua perfezione, forse anche - come diceva Pessoa - la sua bellezza. Ma detesto il parlare per cifre; soprattutto detesto che problemi umani, dalle conseguenze dolorose, vengano ridotti (sì: ridotti) a numeri. Che trasformano ogni tragedia, anche la più lancinante, in una semplice questione di “soglie accettabili”: un po’ come quando si dice che quell’intervento agli occhi riesce nel 99% dei casi, e sembra un successone; e a momenti ci si dimentica che il centesimo operato rimarrà cieco per tutta la vita.
Insomma, i numeri e la vita sono spesso entità incommensurabili, come si dice. Eppure non sono del tutto inutili; a volte, anzi, possono rendere conto della realtà con grande chiarezza. Eccone qualcuno: in Italia ci sono al momento 3 milioni di disoccupati; altri 3 milioni di “scoraggiati” (quelli che hanno perso le speranze di riuscire a trovare un’altra occupazione, al punto che nemmeno la cercano più); 1 giovane su 3 non ha impiego. Questo in media; ma va da sé che il 50% del problema è concentrato al sud, dove la disoccupazione è al 20% e solo 1 giovane su 2 lavora. Tirando le somme: 5 milioni di italiani vivono in condizioni di povertà assoluta; altri 5 milioni, sono poveri solo “relativamente”.
Lavorare manca, di Gabriele Polo e Giovanna Boursier (ed. Einaudi) , fotografa ed esamina questa situazione, ponendosi una domanda: se pure il problema del lavoro si pone su scala europea e globale, che ne sarà in particolare di un Paese come l’Italia, seconda nella manifattura solo alla Germania, che le ultime stime - da quinto, o sesto, che era - danno in rapido scivolamento verso il decimo posto nella classifica delle potenze industriali mondiali?
Con una risposta - dal taglio giornalistico; entrambi gli autori hanno questa formazione - che vorrebbe offrirsi alla politica: se una ripresa (o una trasformazione) deve esserci, dovrà essere a partire da storie di persone come quelle raccontate in questo libro: uomini e donne che non sono né “fannulloni” né “parassiti”, secondo un gergo caro a certa destra “liberale”, ma gente che ama lavorare e che avrebbe amato continuare a farlo, se solo glielo avessero permesso. Partendo dalle loro esigenze - che sono quelle di tutti - e non dai numeri, si potrà venir fuori da una precarietà che prima si è presa i mestieri, poi tutta la vita - economica, personale, familiare, sociale - di tanti di noi.
(«Il Caffè», 11 luglio 2014)
lunedì 14 luglio 2014
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