venerdì 25 aprile 2014

I Quaderni neri di Martin Heidegger

Andate in camera e prendete il vostro diario segreto di sempre. Sì, quello che scrivete (o quello che avreste voluto scrivere, sì, va bene lo stesso) da quarant’anni, forse più. Dove annotate tutto quello che vi passa per la testa, senza riflessione, senza censura, senza misura. Sì, quello segreto, appunto. Niente paura, non dico niente a nessuno. Preso? Bene. Ora rileggetelo. Tutto, dall’inizio alla fine, pagina dopo pagina, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Nemmeno ricordate di aver scritto quelle cose? Non mi stupisce. Pensandoci, col senno di poi, quasi sicuramente non le scrivereste? Non vedo perché non dovrei credervi. In gran parte non vi credevate nemmeno quando le avete scritte, ma la rabbia, o un secondo fine inespresso, o ancora la semplice abitudine a ripetere luoghi comuni e convinzioni altrui, forse perfino il gusto del “dagli all’untore”, o più semplicemente del darvi un contegno ai vostri stessi occhi (era più facile che farlo di persona con l’amica o con l’amico… come darvi torto).
Rilassatevi, non mi dovete nessuna spiegazione. Oltretutto, chi più chi meno, siamo tutti sulla stessa barca. Ma il vostro problema non sono io, ahimé: è la vostra cuginetta d’un tempo, che legge queste cose e non vi riconosce; è la vostra collega che inorridisce di fronte a certe espressioni (un po’ è anche l’esigenza di rispettare il personaggio e il dettato sociale); è vostra moglie, o vostro padre, che più vanno avanti… e meno gli sembra di riconoscervi.
La cuginetta è risentita: il suo affetto era puro, niente di più di quello tra parenti (ma veramente volevate tanto ardentemente vederla nuda a quindici anni? Fino a tentarvi con l’inganno?). La collega è basita (il che quasi certamente non vuol dire che non sia al contempo anche lusingata): vi stimava come una “persona seria”, incapace di usare certe espressioni (e poi francamente non ricorda proprio di aver avuto quegli atteggiamenti “provocanti”, come dite voi); per non parlare di vostra moglie, che legge della cugina e della collega e non riesce a decidersi se correre ad ammazzare prima l’una o l’altra, e se prima o dopo essere diventata vedova. Vostro padre, accidenti, tornerebbe volentieri indietro se potesse. Nemmeno immaginava che un solo evento della vostra vita avrebbe potuto essere tanto decisivo e influente su tutto il resto; nemmeno sospettava come la memoria potesse essere tanto selettiva da ridurre tutto a quell’unico, in fin dei conti insignificante, incidente. Però, diciamo la verità: in mezzo a tutto questo stupore, i più stupiti siete voi. È mai possibile - vi chiedete - che dopo tanti anni di vita insieme, di sforzi fatti per rendere quegli anni piacevoli, accoglienti e se possibile “nutrienti”, tutto si debba ridurre a quelle pagine? È mai possibile che quelle persone considerino quelle cose scritte come l’ultima e più importante verità su voi stessi?
Spero che non sia capitato a nessuno di voi (ma io non aspetterei troppo a dare un’altra mandata a quel piccolo lucchetto). È capitato però a Martin Heidegger, filosofo tedesco morto nel 1976, con la pubblicazione dei famigerati Quaderni neri da parte dell’editore tedesco Klostermann, nell’ambito delle Opere complete: i Quaderni sono diari personali, non rivolti al pubblico, dove Heidegger annotava qualsiasi cosa gli venisse in mente (e magari la annotava anche ove gli sembrasse assurda, inconferente o incompatibile con tutto il resto delle cose che aveva sempre pensato o creduto: è noto quanto Heidegger fosse “fissato” con l’idea di “non far andare perduto neanche un singolo pensiero”: cfr. la recensione al Sofista, su queste pagine). Chi è abituato a scrivere sa distinguere tra ciò che può poi essere letto e ciò che è meglio che non lo sia; ma non perché vi sia qualcosa da nascondere a tutti i costi, bensì perché la “brutta” è diversa dalla “bella” e perché le cose vanno presentate bene per poter essere comprese al meglio. Ma anche per un altro e più fondamentale motivo: noi riusciamo ad avere rapporti umani e sociali non malgrado non siamo completamente trasparenti, ma proprio perché per fortuna non lo siamo. È questa grande qualità del nostro essere che ci permette di formare gruppi, costruire società ed edificare civiltà: noi possiamo renderci opachi, almeno parzialmente, e questo è un bene. È un bene, sì; che vi sia qualcosa di nascosto, ebbene sì. Nell’epoca del Grande Fratello e dell’ossessione per la verità “oggettiva”, nuda e cruda, sembra quasi di udire una bestemmia. Ma è proprio questa caratteristica umana - e la rivendicazione del diritto di esercitarla, che gli uomini da sempre hanno chiamato “pudore” - che permette agli uomini di sopravvivere. Senza venir sopraffatti dalla vergogna per il giudizio altrui (che sa essere crudele fino all’omicidio); senza venir schiacciati dalla pretesa degli altri di insegnare a tutti… come gli uomini dovrebbero essere. Ogni uomo è il dr Jekyll; ogni uomo ha il suo mr Hyde: è l’esperienza personale di ciascuno di noi, ancor prima che la lezione della psicanalisi. Scandalizzarsi per questo è come rifiutare il dato di fatto dei propri sogni di vendetta: un’assurdità. Il fatto di negarla non la rende meno un’evidenza.
Non ce ne rendiamo conto perché siamo talmente tanto abituati a questa condizione di “sdoppiamento” che per noi è invisibile; ma ce ne accorgiamo quando un sogno particolarmente vivido ci turba; o quando qualcuno ci sbatte in faccia che abbiamo parlato al di là dei nostri soliti filtri. Ma possiamo avere rapporti con gli altri solo grazie al fatto che di questi filtri, solitamente, facciamo uso. Noi non possiamo evitare di produrre pensieri e intenzioni sgradevoli (almeno non tout court; non si intende negare d’altro canto la forza dell’educazione); possiamo solo evitare che facciano danni. Quando reagiamo in maniera affabile comprensiva, accogliente… spesso non è perché siamo atarassici, ma perché abbiamo imparato a ricoprire la nostra prima reazione (quella della rabbia per un errore ingenuo reiterato, ad esempio) con una più misurata. Noi non siamo dei santi; nessuno si illude che lo siamo. Possiamo però cercare di non comportarci da belve ad ogni passo.
Ovvietà? Ma certo, non fosse che per Heidegger si usano sovente due pesi e due misure. All’uscita dei Quaderni, lo scorso autunno, con tutti quegli stralci a effetto sugli ebrei e il nazismo (gli ebrei come “inventori del principio della razza”, che quasi quasi si meritavano le leggi razziali; l’odio per gli Inglesi; l’inno al “sangue dei giovani tedeschi versato in guerra” e così via), vi è stata una specie di gara a chi si stracciava le vesti per primo e più completamente; chi prendeva le distanze di qua, chi si dissociava di là, chi si sentiva in dovere - per retaggio, abitudine e magari un pizzico di genuino e salutare anticonformismo - di difendere il profeta dell’esistenzialismo, non senza sottolineare en passant quanto fossero agghiaccianti le cose descritte. Immagino che Heidegger non ne sarebbe rimasto turbato più di tanto: lui la condanna l’aveva già ricevuta all’indomani del processo di Norimberga, e da sempre c’è stato chi lo difendeva e lo sosteneva (magari con l’entusiasmo immeditato del discepolo di fronte al maestro) e, dall’altro lato, chi ne vituperava il comportamento privato per attaccare quello pubblico, chi faceva leva sulle considerazioni razziali per “confutare” quelle filosofiche (ma era poi veramente possibile?). Ma di una cosa, credo, si sarebbe sorpreso davvero: che venissero usati quei Quaderni come prova documentaria. La fonte meno autorevole, più frammentaria e discutibile che esista. A fronte di un’opera filosofica completa che viaggia verso i cento volumi. Con la pretesa che quello sia il nocciolo più autentico del suo pensiero. Veramente nel terzo millennio si è potuto compiere questa operazione? E con quale risultato? È vero, il “mago di Messkirch” non è la prima vittima del metodo: celeberrimo il caso di Kafka, tradito dall’amico del cuore che - contro la sua esplicita volontà in punto di morte - pubblica tutta la sua opera; della quale, come esponenti dell’umanità, ancor oggi ci fregiamo.
Ma non a tutti va bene allo stesso modo. Martin Heidegger, già condannato per il suo sostegno al nazismo dal diritto penale del dopoguerra, viene oggi condannato nuovamente. I filosofi del nuovo tribunale dell’oggettività giudicano colpevole non solo il suo pensiero, espresso nei suoi tanti scritti pubblicati, ma finanche la sua anima. Gran bel processo. Peccato che quelle fossero solo le intenzioni.

(«Filosofia e nuovi sentieri», 25 aprile 2014)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano