sabato 18 gennaio 2014

Noi vogliamo tanto bene

«Si schianta in moto: muore al Brennero poliziotto di 25 anni». «Tragedia nel mare di Patti, poliziotto muore durante immersione subacquea». «Poliziotto travolto da furgone in contromano». «Poliziotto della Stradale muore mentre fa rafting». «Auto contro albero, morto poliziotto». Titoli di giornale presi qua e là, tanto in edicola quanto in rete. Non notate niente di strano? Forse no, ormai ci siamo così abituati che sembra normale che si specifichi “poliziotto” nel titolo, quando muore un poliziotto. Ma se questo è normale, permetteteci una domanda: perché quando muore, ad esempio, un artigiano - con tutto il rispetto per gli uni e per gli altri - non leggiamo mai: «Morto falegname durante una rapina a Bari vecchia», oppure: «Grave incidente stradale: fabbro vicentino in fin di vita»?

Possiamo chiedere rispetto solo per ciò che facciamo di buono per gli altri. Tutto il resto è propaganda

Non si pensi che l’anomalia riguardi solo i poliziotti. Sono tanti i titoli che coinvolgono altre categorie affini: «Incidente sulla Pedemontana, morto un carabiniere di 28 anni»; «Incidente mortale tra Molfetta e Giovinazzo. Muore un carabiniere fuori servizio»; «Muore a 54 anni in un frontale: finanziere appena andato in pensione»; «Schianto all’alba, muore finanziere quarantottenne». Non sono che degli esempi (abbiamo tralasciato quelli che coinvolgono le forze armate per eccellenza, quelle dell’esercito, di cui i nostri giornali traboccano ogni volta che ci scappa l’incidente all’estero). Ecco, appunto. Le “forze armate”: non è che, tante volte, i giornali diano risalto solo ai morti che hanno il porto d’armi?
Ne parlo a tavola in famiglia. Mia figlia, 9 anni appena compiuti, mi dice: “Papà, l’Italia è pazza”. Forse non è molto lontana dal vero: in effetti è difficile spiegare perché quelli con la pistola debbano avere più risalto degli altri. Viene in mente la canzoncina del titolo, quella che si impara da ragazzini e si finisce per cantare a squarciagola, mezzi ubriachi, davanti alla questura di Siena (ma questa è un’altra storia, magari poi ve la racconto): “Noi vogliamo tanto bene alla polizia italiana/Noi vogliamo tanto bene a…”. Perché si canta questa canzone? Semplice: perché purtroppo è percezione diffusa che chi detiene il potere (a partire da quello politico) tenda sempre ad abusarne: così tra il popolo prendono piede rappresentazioni come quelle del film (peraltro bellissimo) “ACAB”, dove anche i “buoni” finiscono per essere (o, quantomeno, sembrare) dei bastardi. Pistola=Privilegio: quest’equazione è falsa, ma l’immaginario collettivo sembra non voler rendersene conto. Che fare, allora?
Un’idea forse ce l’abbiamo, e questo giornale la propone in forma di auspicio da sempre: noi crediamo che le cose potrebbero andare molto meglio, se il rispetto per le “forze armate” dipendesse sempre meno dalle armi e sempre più dall’utilizzo che esse fanno delle proprie forze. Se - tanto per cominciare - i militari dell’esercito si impegnassero stabilmente in operazioni di protezione civile sul proprio territorio e intorno alle coste, invece di impegnarsi all’estero… non credete anche voi che tutti vorremmo ancor più bene ai nostri soldati? Stavolta, però, non perché si tratti di uomini armati in divisa; bensì per l’opera che fruttuosamente svolgono a vantaggio di tutti. Chissà: potrebbero cambiare i titoli dei giornali, magari cambierebbero anche le canzoncine. Non dico domani: ma fra un po’ potremmo pure smetterla di amare le armi e la sofferenza che sempre le accompagna. Un giorno potremmo svegliarci e scoprire, d’improvviso, che non amiamo più la morte (e quel falso senso di potenza che porta con sé: il potere di distruggere), ma la vita. Roba da prima pagina.

(«Il Caffè», 17 gennaio 2014)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano