Siamo nel 1944, nel bel mezzo di una guerra mondiale che nessuno sa quando finirà, e il Presidente americano F.D. Roosevelt ha un’idea geniale: chiamare il suo consigliere scientifico, Vannevar Bush, e porgli una semplice ma cruciale domanda che con la guerra ha poco a che fare: “poiché siamo riusciti a venir fuori dalla recessione solo grazie all’enorme spesa bellica, come faremo a non sprofondarci nuovamente, quando tutto sarà finito?”. Ovvero: come fare a riconvertire questo sforzo militar-economico in un motore che continui a fornirci lavoro e benessere?
La cosa potrebbe già essere di per sé abbastanza sorprendente, soprattutto se si considera che l’America, appunto, stava riemergendo a fatica da ben quindici anni di depressione. Ma la cosa che più sorprende è il rapporto che Bush consegna nelle mani del Presidente: perché lì il consigliere - che frattanto è impegnato “un attimo” nel Progetto Manhattan - trova non solo il tempo e il modo per dire al Congresso che bisogna incoraggiare la ricerca scientifica e la pubblicazione, premiando il merito e favorendo la libertà d’indagine, ma riesce anche a sottolineare una serie di cose che ci saremmo aspettati da tutt’altra campana e probabilmente in tutt’altro momento storico: Bush dice che bisognerà allentare prontamente, a guerra finita, le misure di sicurezza (per permettere un rapido ritorno alla normalità, unica foriera di benessere); che bisognerà dare massima priorità al lavoro (oltre che, appunto, allo studio e alla ricerca); che la salute pubblica andrà tenuta nella massima considerazione e supportata con una ricerca scientifica a tutto campo; riesce perfino a preoccuparsi di “non perdere la generazione in divisa”. Insomma, nell’America liberale del ’44, un programma politico che più “di sinistra” non si può (a quel tempo e in quel luogo, ovviamente).
Manifesto per la rinascita di una nazione - questo il titolo del rapporto, pubblicato recentissimamente da Bollati Boringhieri con una lunga e circostanziata Introduzione di Pietro Greco - è un libro che suscita stupore, ma anche rabbia: perché non si può fare a meno, scorrendone le pagine - scritte con uno stile lineare non scevro da una certa inclinazione alla propaganda - di pensare alla nostra classe politica attuale, che continuiamo a dileggiare con l’adagio morettiano “di’ qualcosa di sinistra” senza che nessuno si senta mai realmente punzecchiato al punto di dirla davvero questa “cosa di sinistra”.
Be’, la depressione ce l’abbiamo già da parecchi anni (e molti l’hanno già paragonata a quella americana del ’29); se fossimo negli Stati Uniti, non resterebbe che aspettare anche la guerra. Ma siamo in Italia, e c’è da temere che neanche questo sarebbe sufficiente. A noi non restano che i tagli alla scuola, alla sanità, alla ricerca. Poi dicono che noi subiamo le scelte d’austerità dell’Europa. Altroché: l’Europa è la nostra salvezza. Ma ve li immaginate i nostri governanti a dover fare politica veramente da soli?
(«Il Caffè», 8 novembre 2013)
sabato 9 novembre 2013
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