Esteva ha vissuto sulla sua pelle, fin da piccolo, la discriminazione dei nativi («la mia nonna zapoteca non poteva entrare in casa nostra a Città del Messico passando dalla porta principale, semplicemente perché era india»). Poi, un bel giorno, qualcuno (il presidente staunitense Truman) decise che gli USA erano “sviluppati” e che tutti gli altri erano “sottosviluppati”. Così, tutti i messicani - tra cui Esteva con la sua famiglia - iniziarono la corsa allo sviluppo: non per diventare migliori a modo loro, ma per diventare come gli americani.
È la solita triste storia del colonialismo occidentale, dell’esportazione del pensiero unico, democratico, capitalistico e tecnoscientifico a tutto il mondo. Esteva però, pur vittima di questo meccanismo, è riuscito a trovare un riscatto nella visione del mondo di Illich, in particolare nelle sue tesi sulla “descolarizzazione della società”, per la quale la scuola non dovrebbe affatto essere uguale per tutti e imposta dall’alto (lo Stato), ma dovrebbe fondarsi sull’esperienza tradizionale di ciascun popolo e di ciascuna comunità (senza esaurirsi in essa), gestita autonomamente da quelli che vi lavorano e, soprattutto, da quelli che ne fruiscono: gli scolari.
Considerazioni che l’autore esprime nel suo ultimo Senza insegnanti (ed. Asterios), in cui la riflessione - maturata giorno dopo giorno nella propria esperienza personale - fluisce chiara e coinvolgente come il resoconto di una vita.
(«l'Altrapagina», giugno 2013)
