
Saggio in cui Panikkar spiega che la Teologia della Liberazione inizio con la “liberazione dalla teologia”. Che vuol dire? Liberarsi dalla teologia vuol dire essenzialmente liberarsi dal pregiudizio di possedere una ragione (teologica, filosofica, scientifica, economica...) universale; vuol dire al contempo liberarsi dall’ipocrita (e tremenda) responsabilità di “doverla” imporre agli “altri” (gli infedeli, gli ignoranti, i primitivi...). Ogni colonialismo, non solo militare, è sempre preceduto da un colonialismo culturale (talvolta teologico: così un santo cristiano come Bernardo di Chiaravalle può benedire le crociate in quanto lo sterminio degli infedeli è un “malicidio”). D’altro canto, non basta pensare le cose in maniera diversa per cambiarle davvero: teoria e prassi vanno di pari passo, la liberazione dalla teologia deve poter produrre effetti concreti; ed è questo che ci ricorda, senza mezzi termini, la Teologia della Liberazione: «la teologia non è una scienza astratta e semplicemente descrittiva. Ciò si chiarisce esplicitamente nel momento in cui non possiamo difendere un’opzione per i poveri se non viviamo la povertà - che oggi giorno non è esclusivamente di carattere monetario. Ribadisco che la teologia è un’attività compromettente e difficile. Per questa ragione è anche liberatrice».
Un saggio, questo di Panikkar, da leggere insieme a quelli dei curatori Barros e Vigil, dedicati rispettivamente all’interreligiosità e al futuro della teologia, e ai tanti altri contributi d’interesse, tra i quali spiccano quello di Paul Knitter sui fondamenti del pluralismo e di Michael Amaladoss sull’esperienza personale di un cristiano indù.
(«l'Altrapagina», febbraio 2013)
