sabato 16 febbraio 2013

Guerra e pace/2

Premio Nobel per la pace a chi dice la frase più bella sulla guerra: ne parlavamo la settimana scorsa, siamo ancora in tempo per annunciare le nostre candidature. A quelli già citati si potrebbero aggiungere, perché no, tutti quelli che chiamano “operazioni chirurgiche” i bombardamenti a tappeto, che quando gli fai notare che sono morti 10.000 civili in un solo anno ti rispondono che “non si può fare la frittata senza rompere le uova” (ecco, a costoro in particolare mi piacerebbe domandare: e allora perché fate tanto baccano quando uno dei “vostri” militari viene ucciso? Perché non ripetete il discorso della frittata anche in quella circostanza?).
Ma in verità l’unica frase che vorrei davvero candidare al Nobel è alla fine quella che più spesso ho sentito citare in vita mia: “la guerra è necessaria per l’umanità, senza gli eserciti non ci può essere la pace”. Detta e ripetuta da uomini e donne di tutte le età, di tutte le estrazioni sociali, di ogni grado di istruzione e appartenenza politica. “Non ci sono alternative”: ecco il succo di questa mentalità, che vien fuori puntualmente ogni volta che si parla di qualcosa di più della partita di calcio. Fatalismo rassegnato in grado di accettare un’economia che fa disastri su scala planetaria (perché non vi sono alternative); un’energia pericolosa e letale come quella nucleare (perché non vi sono alternative); e la guerra, perché non vi sono alternative.

La guerra non è affatto necessaria, né “naturale”: potremo liberarcene, se sapremo imparare dalla storia

A tutti costoro (e pare ne siano tanti tanti) vorrei dire non “per favore ripensateci”: perché se non sono stati capaci di farlo, nel vedere che la guerra continua a esistere dopo la firma di 8.000 trattati di pace (sono infatti oltre ottomila i trattati di pace stipulati nei 6.500 anni di storia umana; più di uno all’anno), dispero di riuscirci con quattro parole. Vorrei dire, piuttosto: sperate che non capiti a vostro figlio. O a vostra figlia. E sperate con forza, perché in guerra si muore in tanti modi orribili: in un bombardamento, in uno scontro in campo aperto, in un agguato dinamitardo, di linfoma non-Hodgkin, anche a casa propria e ad anni di distanza, oppure mentre si passeggia per caso su una mina antiuomo (lo scorso 17 dicembre, nella provincia di Nangarhar, in Afghanistan, sono morte così dieci bambine). Sperate fortemente e tenete duro, perché oltre a ogni forma di riscarcimento (non sareste i primi a cui viene negata) vi si negherà anche la compassione. Sentirete ripetere a ogni angolo di strada che quella morte era necessaria. In quel momento, forse, vi sembrerà di sentire la vostra stessa voce. E non vi piacerà.

(«Il Caffè», 15 febbraio 2013)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano