sabato 19 gennaio 2013

Armi, un affare di Stato

1.700 miliardi di dollari all’anno. 3.200 milioni di dollari. 580%. A volte le notizie sono fatte di numeri. E in buona parte di numeri è fatta l’inchiesta giornalistica di Duccio Facchini, Michele Sasso e Francesco Vignarca che l’editore Chiarelettere ha appena pubblicato in volume con il titolo Armi, un affare di Stato.
Millesettecento: è il fatturato mondiale annuo del business delle armi. Si tratta del commercio legale (non del traffico illecito, che va sommato a questo): è la cifra che gli Stati, i governi, ma anche tutti noi teorici della “guerra necessaria” e del “diritto alla difesa” (o assuefatti ad essi), consideriamo “normale” spendere nel terzo millennio.

Tremiladuecento: è la cifra che l’Italia ha incassato nel quinquennio 2007-2011 per la vendita di armi. L’Italia. Quel Paese che «ripudia la guerra», avete presente? Tutto normale, anche qui.
Cinquecentottanta percento: è invece il tasso di crescita delle importazioni di armi da parte di un certo Paese straniero. Noi giuriamo continuamente che mai e poi mai venderemmo armi a Paesi notoriamente facinorosi e che in ogni caso lo facciamo soltanto per garantire a quei Paesi (che, poverini, non sanno fabbricarsele da soli) il sacrosanto diritto alla difesa dagli invasori. Ebbene, sapete chi è quel Paese straniero che ha moltiplicato per 6 le sue importazioni letali? La Siria. L’invasore da cui si sta difendendo con quelle armi si chiama: popolo siriano.

Nell’Europa delle “radici cristiane”, premio Nobel per la pace, si continua a esaltare la guerra. I cristiani non fanno eccezione

Per lo stesso motivo abbiamo venduto armi alla Libia. Solo che stavolta gli invasori eravamo noi. In Libia si è combattuto, si è sparato, si è ucciso. Hanno sparato i libici, hanno sparato gli italiani. Entrambi con le stesse pistole: Beretta. Ma atteniamoci alle cifre: per la fornitura di armi alla Libia, Beretta ha incassato 8,1 milioni di euro nel solo 2009. Tutto legale, tutto in regola. È sempre tutto normale.
Sulla guerra e sulle armi che la permettono ognuno ha la sua idea. Questo di cui parliamo oggi non è un libro di invettiva, non lo si legge per parteggiare. Lo si legge (anzi, si dovrebbe farlo) per capire. Per capire come mai in quest’epoca di vere e proprie mutilazioni ai servizi pubblici, si investono cifre stratosferiche per la spesa militare (e proprio in Europa, appena premiata con il Nobel per la pace: qui la sola Italia ha destinato al comparto della difesa, nel 2012, oltre 23 miliardi di euro - di che sfamare un continente intero; mentre la Grecia, sull’orlo del collasso economico, non rinuncia a spendere comunque 7 miliardi di armamenti). Chiarelettere dà alle stampe un libro per capire, oggi, chi e come sta preparando le guerre di domani.
Tra questi, ci sono i cristiani. Quelli del “porgere l’altra guancia”, quelli dell’“ama l’altro come te stesso, anzi di più: ama l’altro come Dio ti ha amato” (cioè fino a morire sulla croce). I quali - come ricorda sovente mons. Nogaro, vescovo emerito della nostra città - troppo presi dal mantenimento dello stato delle cose, non solo non sono disposti a farsi crocifiggere (reclamando invece quel “diritto alla difesa” rivendicato anche da molti documenti pontifici), ma sono ben deliberatamente intenzionati ad andare a crocifiggere “l’altro” a casa sua (Iraq, Afghanistan ecc.) pur di mantenere intatti i propri privilegi. Cristiani in mala-fede? Forse. Ma sicuramente cristiani che ignorano il messaggio più autentico della loro stessa religione: che l’unico vero bene è la pace, null’altro. “Se vuoi la pace, prepara la pace” è il motto che vorremmo sentir ripetere ad ogni cristiano. Perché, proprio come la guerra, anche la pace va preparata. Difficile farlo con le mani occupate dalle bombe.

(«Il Caffè», 18 gennaio 2013)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano